Dopo un anno circa di attesa esce nelle sale italiane – finalmente! – la quarantanovesima pellicola di Woody Allen.
Gli spettatori italiani, e non solo, hanno tirato un sospiro di sollievo: il nuovo film di Woody Allen è riuscito finalmente ad uscire al cinema dopo esser stato messo in naftalina per circa un anno, successivamente alle accuse di pedofilia ed incesto da parte dell’ex moglie Mia Farrow.
La damnatio memoriae infitta all’eclettico artista di Brooklyn, ormai 83enne, dal me too (quel movimento femminista nato tra le complesse trame del mondo cinematografico dell’industria hollywoodiana) aveva inizialmente frenato la pubblicazione dell’autobiugrafia di Woody Allen e il sopracitato film per circa un anno… ma la non condanna e l’assenza di prove (ed aggiungerei anche il buonsenso) hanno permesso agli spettatori di potersi deliziare dell’arte dell’autore che, prescindendo dal suo valore, non può e non deve essere confusa con i suoi trascorsi biografici.
Forse non aveva tutti i torti quando, in Mariti e mogli (1992), diceva:
La vita non imita l’arte, imita la cattiva televisione.
Woody Allen
Mutatis mutandis questa volta è stata la sua di vita ad entrare nel vortice della fanghiglia “televisiva” del politicamente corretto, che senza bisogno di dati giudiziari (fino a prova contraria) ha attentato alla produzione artistica dell’autore.
Il film di cui si sta parlando può inserirsi nel filone della commedia sentimentale tipica degli ultimi lavori dell’autore (Caffé society, Magic in the moonlight, Wonder wheel – La ruota delle meraviglie) con una sostanziale differenza: il regista torna, dopo circa dieci anni, a parlare di uno dei suoi più grandi amori… Manhattan.
Francesco Micheli disse che “George Gershwin e Woody Allen rappresentano New York e la città rappresenta loro”… così l’ambiente newyorkese, misto a quell’insieme di elementi autobiografici propri della quasi totalità dei film dell’autore, trasmette allo spettatore un’atmosfera quasi fiabesca che pone le basi per una narrazione tanto semplice (e apparentemente “scontata”) quanto profonda.
Le storie dei protagonisti – due ragazzi innamorati che decidono di passare insieme un weekend nella grande mela – s’intersecano con quelle dei personaggi secondari, i quali cercano continuamente – ma inconsapevolmente – di minare le basi del rapporto d’amore dei due, che a loro volta provano a resistere sotto gli attacchi del destino nefasto e lusinghiero.
Ma tutti questi comprimari non hanno una profondità caratteriale, sono delle comparse, dei blocchi monolitici che possono comodamente intercambiarsi ai fini di un perfetto scorrimento della narrazione, la quale cerca di nascondere in seno – sin di dalle prime scene – un finale tanto scontato quanto ardente: l’amore può essere banale, puerile e persino effimero e passeggero, ma è riconoscibile e può (e deve) essere raggiungibile.
Cogliere l’attimo nel giusto momento, scegliere ed agire approfittando dei segnali del destino e, se necessario, attendere ciò che la vita riserva.
Tra battute poco amare e (ancor meno) sagaci – “alla Woody Allen” per intendersi – e con qualche colpo di scena un po’ troppo semplicistico, è riconoscibile la vena esistenziale di un regista che riesce a rimanere sempre sé stesso ma in maniera originale e che prova, ancora, a centrare il segno.