Il golpe contro Allende è notoriamente una delle mitologie degli anni Settanta, vicenda entro cui trovano spazio tutte le narrazioni edificanti della sinistra popolare dell’epoca. Dopo essersi allontanato dalle dispute politiche – ritagliandosi e poi rifiutando il ruolo di grillo parlante dell’incontro tra Dc e Magistratura (i girotondi, Micromega, in seguito il Pd) – Moretti decide di tornare a parlare di politica senza rischiare nulla. Riparte dunque dal golpe cileno, sicuro dell’unanimità di vedute che avvolge l’evento. Per essere sicuro di essere ecumenicamente accettato e osannato nei circoli intellettuali più navigati, decide di parlare del Cile senza mai parlare degli Usa, senza intervistare i politici cileni più compromessi, senza indagare il ruolo della Chiesa o della borghesia stracciona e dipendente.
Un film inutile dunque? Non proprio. Perché l’asciutto resoconto delle testimonianze dei sopravvissuti, delle vittime del golpe, e della solidarietà che questi ricevettero dal mondo e in particolare dall’Italia, hanno oggi ancora la forza di colpire al cuore tanto il militante politico “abituato” al racconto della dura storia di classe, quanto il sincero democratico lontano dalla bagarre degli eventi ma ancora “umano”. Fino a qualche anno fa un’operazione di questo tipo sarebbe stata molto più compromettente. Il silenzio sulle responsabilità, certo, ma anche la struttura di un racconto che si regge sulle emozioni dei rifugiati, degli espatriati. E’ il racconto della fuga, la legittimazione di chi venne travolto dagli eventi. Gente ammirevole, vittime – vere – dell’imperialismo. E chi rimase a combattere i militari? I rivoluzionari morti combattendo?
Questioni da tempo espulse dall’interesse generale, figuriamoci dunque se possono interessare Moretti, vecchia volpe del compromesso intellettuale. Ma per ricostruire quelle storie, ritrovare grammatiche più ardite, linguaggi più prossimi alla verità, servirà del tempo. Inutile pretendere quello che non può più essere, almeno momentaneamente, almeno al livello mainstream. Molto più facile mettere nel calderone “migrante” tanto chi lottava per il comunismo – e per questo ha trovato la morte, il carcere o l’esilio – quanto i dannati della terra che attraversano il Mediterraneo. Proponendo, tra le righe, sottaciuti (e compiaciuti) paralleli a-storici (Pinochet come Salvini?).
Ma il documentario conserva una sua forza ineluttabile, che nessuna pacificazione storica e ideologica riuscirà mai a cancellare del tutto. La forza del semplice racconto delle vittime, di chi veniva torturato, di chi si trovò ad abbandonare, dalla notte al giorno, tutta la sua vita, i suoi affetti, le sue cose, per rifugiarsi in qualche ambasciata straniera, partendo poi per paesi lontani. Questo e non altro sono le politiche imperialiste, anche se dirlo oggi risulta inevitabilmente melenso, ideologicamente ottuso, sottilmente populista, e così sia. Il Cile ancora oggi ha molto da insegnarci. Senza difesa non c’è rivoluzione, e non c’è difesa senza repressione. Allende pagò sulla sua pelle questa mancata scelta di campo. Piace proprio per questo, Allende. Perché venne sconfitto. Perché non ebbe il tempo, o non volle accorgersi, che il potere popolare va difeso con ogni mezzo necessario.
Che la difesa del potere è una gran brutta cosa, che costa compromessi e scelte etiche senza risposta se pensate fuori dalla rivoluzione. Allende insegna che non bisogna fare come Allende. Questo limite è il motivo per cui uno come Moretti oggi può parlare liberamente di Allende, riuscendo a superare – momentaneamente – i limiti evidenti di una narrazione sostanzialmente opportunista. Moretti è stato un regista importante, il suo problema non è di certo organizzare una messa in scena convincente. E’ una vecchia volpe e sa come trascinare a sé lo spettatore. E nonostante ciò, le forza dei volti e dei corpi è ancora giustamente emozionante. Il problema non è lasciarsi convincere dall’emozione, ma di non saper più pensare le sue necessarie conseguenze.