Di Valentina Gaspardo
È piuttosto celebre la formula di Kant, che dice di trattare l’altro come fine e non come mezzo. Trattare l’altro come mezzo significa utilizzarlo al modo di un attrezzo per soddisfare un proprio bisogno, esaurito il quale è esaurita anche la relazione con l’altro e il nostro interesse nei suoi confronti. È evidentemente rendere oggetto un soggetto, fingere ch’egli sia quello che non è. La quantità spropositata di incontri e stimoli di una società di massa, qualunque essa sia, ha come effetto indesiderato proprio questo tipo di situazione. Non è difficile indovinare che ciascuno di noi, di norma, quando va al supermercato non è minimamente interessato al dipendente alle casse. Non ha importanza se sia triste o felice, o chi sia, basta che renda il servizio per cui è assunto. Non ci interessa nemmeno di chi pulisce le strade, bisogna solo che siano pulite. Capiamo tutti come da questi presupposti si scivoli in una società in cui ciascuno è identificato nella funzione del proprio ruolo. A cosa serve quell’essere umano? A che servo io? Involontariamente, e nonostante i principi che teniamo fermi contro di essa, ci siamo incastrati in un’etica della prestazione, e ciascuno deve essere all’altezza della prestazione universalmente richiesta. Un bambino che regala il fiore al nonno non serve a nulla, è improduttivo, ma forse emozionalmente il suo gesto è più che utile: è la capacità di fare sentire l’altro desiderato, amato, stimato. La massima gioia della relazione umana è la reciprocità di affetto – l’altro è un fine, il mio fine; il mio scopo è lui, è godere della sua presenza, ancora e ancora.
Trattando l’altro unicamente secondo le sue prestazioni, secondo la sua utilità, non facciamo torto solo a lui, ma cominciamo a misurare persino noi stessi con gli stessi parametri. La premessa doverosa da fare, prima di proseguire il discorso, è che non si discute l’utilità di un’azione, ma la riduzione dell’azione umana all’utilità. Quando un samurai entra in battaglia e la vince, evidentemente l’azione è utile perché allontana la minaccia nemica. Ma, se fosse solo questo il punto, avremmo ragione noi uomini tecnici, varrebbe la pena mandare una macchina al nostro posto: lo faccia pure un drone quello sporco mestiere. Sarebbe anche più efficace, come lo è un carro armato di fronte a uomini a cavallo: ricordiamo l’impotenza della cavalleria polacca di fronte alle macchine tedesche durante l’invasione nazista. Tuttavia quel tipo di uomini non seducono a distanza di secoli per la battaglia, per una capacità tecnica soltanto, ma per qualche “proprietà” dell’animo: è il coraggio che amiamo, e la responsabilità che ciascuno di loro ha accolto su di sé.
Un samurai, come noi, aveva paura, ma pregava prima della battaglia; pregava che qualcuno – un dio o qualche spirito – concedesse a un pover’uomo, un uomo che non si crede Dio ma che ha un Dio, il coraggio necessario per non fuggire, per non immobilizzarsi di fronte al pericolo. Dopo aver pregato, con la spada – dal nome di donna – metteva a rischio la sua vita, perché quel rischio era condizione di esprimere un valore, sia pure l’ultimo della sua vita, e di goderne. È un uomo al servizio, non un uomo utile: ha piacere nel fare quello che fa, perché lo sente importante. Si sente al suo posto nel mondo.
Identificarsi nel proprio ruolo significa invece godere solo del riconoscimento che l’altro ne dà: significa trattare se stessi come oggetti e non come soggetti dell’azione. Oggi siamo più che mai immersi in queste dinamiche, e bastano pochi esempi per vedere come ne siamo tutti tristemente coinvolti. Quando siamo in palestra non ha importanza come fisicamente ci sentiamo, non ci accorgiamo nemmeno più di sentire qualcosa, perché abbiamo occhi soltanto per traguardo battuto, vale a dire cosa vede l’altro nel nostro gesto. È importante sollevare mezzo chilo in più, correre duecento metri in più, perché per noi è essenziale essere approvati o invidiati dall’altro: la nostra prestazione è migliorata e quindi possiamo godere dello sguardo altrui su di essa. Del gesto fisico non ci interessa, esso è un mezzo per ottenere riconoscimento. Poco importa se così si perde il piacere del corpo, il piacere che il corpo, che è soggetto, sente nel correre.
Quando percorriamo un museo, quando camminiamo per un prato, fotografiamo un quadro o un albero fiorito e lo postiamo sui social: il tempo dedicato alla relazione fisica con il quadro e la pianta è di pochi secondi, tempo di uno sguardo fugace; il tempo dedicato al controllo dell’esito della foto sul social è di parecchi minuti in più, e a più riprese. Non godiamo la nostra esperienza, aspettiamo di mostrare a tutti che eravamo lì, in quella sala importante o in un giardino tanto particolare.
Quando compriamo un giocattolo viene venduto come un oggetto per accrescere la possibilità di performance: dietro a un libretto per bimbi bisogna ormai sottolineare come sia un oggetto indispensabile per migliorare la capacità cognitiva e sensoriale del bambino. Sembra, poi, che farne a meno significhi togliere una possibilità al figlio, che rimane “indietro” perché non si è fatto abbastanza per lui.
Il problema, con tutta evidenza, non sono i miglioramenti sportivi, né le fotografie e meno che mai i giocattoli, ma il fatto che non sentiamo più niente, e che sia una misura esterna a dirci cosa sentire. Siamo costantemente proiettati nella mente dell’altro a decidere cosa pensa di noi, senza più provare piacere per quello che facciamo. Quello che facciamo non è un fine, l’espressione della nostra soggettività, ma è il mezzo per compiacere una misura di utilità riconosciuta. La nostra esperienza è quasi interamente vissuta con l’occhio altrui, e quello che facciamo va bene se quell’occhio l’approva: noi non abbiamo pareri in merito, non abbiamo preferenze. La dialettica però è possibile se si è due, cioè se oltre all’altro ci siamo anche noi. Ma così non è, attualmente. Siamo oggetto dell’altro, ma non per colpa dell’altro, che è intrappolato in una gabbia identica; perché abbiamo tutti introiettato questo modello performativo: ci trattiamo come oggetti e non più come soggetti.
Non ci sentiamo soggetti delle nostre esperienze, ma possibili oggetti, immagini, delle esperienze altrui e nessuno ce lo ha imposto. Camminiamo per arrivare a diecimila passi, mica per il piacere di camminare nel bosco; mangiamo una certa quantità di macronutrienti, mica del cibo; lavoriamo per fare soldi, mica per passione; siamo in accademia per ottenere riconoscimenti, mica per il sincero desiderio di cercare la soluzione a un problema. E così via. La colpa, a sentirci parlare, è sempre di qualcun altro: è il capo, è il tempo, è il corpo, è l’economia. In realtà, benché ci siano sicuramente delle responsabilità nel mondo, la responsabilità principale è nostra; lo è perché osserviamo continuamente che cambiando capo, clima, stato del corpo e stipendio ci lamentiamo lo stesso, siamo sempre infelici e scontenti. Essere fine per se stessi significa godere di quello che si fa perché lo si fa, non perché qualcuno ritiene che così si debba fare. Ha un valore camminare nel bosco, perciò lo si fa. Se poi fa anche bene, meglio; ma prima di tutto “fa bene” riuscire a vivere la propria esperienza. L’energia, la volontà, la capacità accrescono enormemente quando si ama quello che si fa. Una camminata svogliata e una camminata fatta con piacere, a parità di calorie, danno una gioia e una forza molto diverse per il resto della giornata.
Molto facile a dirsi, molto meno a farsi. Ma se ciascuno cominciasse a discernere, all’interno delle proprie azioni, cosa di volta in volta insegue, potrebbe forse sentire riaffiorare la propria soggettività.
«L’uomo ha bisogno delle difficoltà, sono necessarie alla salute.» (C.G. Jung)