di Franz Trinchera
Affrontare la tematica relativa alle istanze separatiste, unioniste ed indipendentiste dell’ultimo secolo è argomento spinoso, se non altro per le differenziazioni che esistono tra suddette istanze, nessun caso è facilmente assimilabile ad un altro, ed ognuno rappresenta un unicum legato al popolo, o sedicente tale, a cui esso fa capo. Sarà necessario quindi optare per un semplificazione in macrocategorie relativa principalmente ai fattori geografici, per trovare dei punti comuni ai diversi casus storici.
Le macrocategorie possono riferirsi ai due corpi contro i quali la lotta etno-nazionalista si rivolge: le colonie imperiali extra-europee e gli imperi europei stessi. Troveremo da un lato, principalmente, Africa e America Latina e dall’altro l’Europa.
I casi relativi al Sud del Mondo sono naturalmente afferenti alla questione coloniale: interi continenti vennero spartiti tra le potenze imperiali europee tracciando, grosso modo, confini sulla cartina geografica senza tener conto di alcun tipo di prospettiva identitaria o tribale delle popolazioni indigene, ciò, ad indipendenza avvenuta, non poteva non sfociare in sanguinose guerre civili e conflitti tribali, anche all’interno di nazioni piccolissime, il caso più eclatante per efferatezza e sangue versato è sicuramente il Rwandese, una nazione delle dimensioni di una regione italiana che vide gli Hutu, in meno di un mese, macellare a colpi di machete, un milione di Tutsi. L’Africa non aveva mai vissuto quella forma di costruzione statale che investì l’Europa sin dai tempi dell’Impero carolingio. Ogni tribù viveva nella sua zona riconoscendosi nella propria etnia e nella propria comunità tribale più che in uno stato, un impero o comunque in qualche tipo di assetto nazionale europeo. La precedentemente citata spartizione “berlinese” del continente non poteva non creare, nel suo ammassare insieme decine di tribù sotto un modello allogeno, creare oltre che forme di violenza fisica e razziale, anche una forma di violenza politica e sociale. Quando si chiese l’indipendenza nel processo di decolonizzazione non la si chiese su una base linguistica (si parlava la lingua del colonizzatore) o su base tribale-etnica, ma sulla base dell’assetto geografico e politico dato ad un determinato territorio dalla potenza colonizzatrice. Esemplifichiamo: il Senegal, paese francofono, ha al suo interno un piccolo paese anglofono, il Gambia, coincidente con le rive dell’omonimo fiume. Oppure Niger e Nigeria hanno come principale differenza il fatto di essere francofoni gli uni e anglofoni gli altri in base alla spartizione operata da Regno Unito e Francia sul territorio del fiume Niger. Molte guerre civili scoppiarono per questioni etniche, altre guerre invece, relative proprio a istanze separatiste e indipendentiste, scoppiarono su pretesto occidentale, dove determinate regioni divennero teatro di scontro delle potenze occidentali stesse, un caso su tutti quello del Katanga, regione del Congo che su spinta occidentale, decise di staccarsi dal Congo stesso, ufficialmente per motivazioni di carattere etnico, ma principalmente, anzi esclusivamente, per divenire la spina nel fianco del governo Lumumba, che nonostante fosse un governo dichiaratamente liberale, instillò in Washington il dubbio di poter divenire presto un potenziale alleato dell’Urss. Inutile dire che in quella guerra civile Lumumba perse la vita e che il suo posto venne preso da un satrapo quale Mobutu che passò alla storia come il fondatore di una vera e propria cleptocrazia, ovvero una forma di governo basata sulla corruzione e sul furto del bene pubblico, lo stesso Mobutu arrivò a dire ai suoi compatrioti “rubate ma non troppo”.
I casi europei invece sono estremamente differenti. Se gli africani erano riuniti in miriadi di tribù, gli europei avevano da sempre avuto sul loro territorio popoli numerosi, accomunati da lingua e storia e da, effimeri o meno, momenti di indipendenza. Le stesse lingue erano figlie di storie profondamente differenti. I magiari ad esempio, con una lingua dalla complessa discendenza filologica, i rumeni isola latina nel mare slavo, gli jugoslavi (e qui ci sarebbe da aprire un focus enciclopedico), gli illiri, i greci, i francesi, i polacchi, i baltici e così discorrendo. Grosso modo tutte queste popolazioni, spesso prive di stato, erano parte degli immensi imperi centro-orientali: germanico, russo e austro-ungarico e, da sempre, con un culmine nel 1848, avevano lottato per la loro indipendenza. Ma non bisogna credere che solo gli imperi avevano al loro interno tale varietà di popoli e lingue: il risorgimento italiano vide il Regno di Sardegna invadere e annettere due stati sovrani, ovvero le Due Sicilie e lo Stato Pontificio. La stessa unità germanica si era avuta con la Prussia che conquistava a se tutte le “sorelle” del Sacro Romano Impero, differenti spesso per lingua e orientamento religioso, basti pensare alla cattolica Baviera o alla protestante Sassonia, ed infine la Prussia stessa, che si espandeva dal Reno al Mar Baltico aveva in se diversi caratteri che la ponevano come “cuore d’Europa”, ponte tra est ed ovest.
La prima guerra mondiale ed il disfacimento degli imperi portò diversi popoli ad ottenere l’indipendenza: Polonia, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Ungheria, Romania, Finlandia ecc. Tali confini vennero nuovamente modificati al termine della Seconda Guerra Mondiale sulle ceneri del III Reich. E qui iniziarono a sorgere i primi problemi, in parte già presenti dopo Versailles: se nel 1918 si tenne conto il più possibile delle identità nazionali nella realizzazione del nuovo assetto geopolitico europeo (non senza casi eclatanti come Istria-Fiume-Dalmazia jugoslave o il Sud Tirolo italiano), se non altro perché ne uscirono vincitrici potenze tra di loro alleate, anche e soprattutto politicamente, nel 1945 ci si trovò di fronte a potenze vincitrici antitetiche tra loro: Urss e mondo anglo-sassone. La Moldova, di lingua rumena, si trovò ad essere sovietica. La zona germanofona della Polonia (Danzica, Stettino, Breslavia, Poznan) si ritrovò ad essere polacca e non più tedesca, mentre la polacca Leopoli si trovò ad essere sovietica. La Romania che aveva sì perso la Moldova si ritrovò però assegnata la magiara Transilvania. La maggior parte di queste modifiche si ritrovarono però nella sfera di influenza sovietica, e tali pressioni ed istanze nazionali vennero contenute dall’autorità socialista; fu semmai dopo il 1989 che scoppiarono i problemi, come ad esempio in Jugoslavia, con sempre gravi ingerenze Nato.
Per riassumere, le istanze nazionaliste e indipendentiste si svilupparono in Africa su due modelli: quello anti-coloniale endogeno scevro da componenti etniche, o su modello etnico su spinte occidentali come strumento di contrasto a governi scomodi. In Europa, al contrario le istanze indipendentiste nacquero su base etnico-linguistica sulle ceneri degli Imperi, e se puntiamo un focus sugli ultimi decenni, salvo i casi moldavo-transistrico e il caso jugoslavo non si risolsero quasi mai in guerre civili (basti pensare alla pacifica dissoluzione della Cecoslovacchia o alle Leggi Speciali rumene sulla minoranza ungherese che ha i propri partiti politici regionali).
Ora approfondiamo il caso ucraino. Caso forse poco spinoso dal punto di vista storico perché fattuale, ma spinosissimo dal punto di vista geopolitico perché calato all’interno ostilità militari. L’Ucraina, prima o durante esser stata parte di un Impero è mai esistita come entità autonoma? No (se non con una breve tragica parentesi).
La Russia non nacque a Mosca, la Russia nacque a Kiev, lo stesso nome Russia deriva da quella precisa entità statale, il Rus’ di Kiev. Kiev è per la Russia ciò che Roma è per l’Italia. Noi tutti per altro la chiamiamo Kiev, che è un nome russo, in ucraino si dice Kyiv. Col passare dei secoli il paese si espanse verso nord, venne fondata Mosca, che divenne nuova capitale, e secoli dopo ancora nacque Pietroburgo. Dire che Russia e Ucraina sono due cose diverse e slegate è non solo una bestemmia storica, ma la negazione stessa dell’esistenza della Russia.
La questione linguistica è più articolata. Spesso un popolo è tale per la lingua che parla, Cioran diceva che la lingua è l’unica patria che abbiamo, ma la lingua ucraina esisteva o no? Esisteva certo, ma come parlata locale, due dei massimi scrittori della letteratura russa, Gogol’ e Tolstoj erano nati nell’attuale Ucraina ma scrivevano e parlavano russo. Esistevano autori che producevano esclusivamente in ucraino? Certo, Taras Shevchenko ad esempio, ma anche in Italia abbiamo Trilussa, di certo però i romani non pretendono su tale base di essere un popolo autonomo, non italiano e parlante una lingua specifica.
Approfondendo il discorso storico, annotiamo come nel 1917, sulla spinta centripeta del governo leninista iniziarono a nascere ed ottenere i propri parlamenti tutto un insieme di comunità che sino ad allora mai si erano identificate come “popoli” nel senso nazionale o linguistico del termine: ucraina, carelia, transcaucasia e via discorrendo. Alcuni di queste “zone”, vedi la Carelia, non furono mai, e non sono tutt’ora stati indipendenti, ma parti integranti di altri stati, in questo caso la Carelia è suddivisa tra Russia e Finlandia. Quando nacque la Repubblica Socialista Sovietica Ucraina esse si vede però elargire un cospicuo regalo da Mosca: il Donbass! Tale regione russofona ed estranea da questa neonata identità ucraina e dalla sua componente linguistica, sino ad allora considerato per ciò che era, un dialetto non molto distante dal russo (è immensamente più profonda la differenza tra basco e castigliano), venne regalato al solo scopo di fornire alla neonata RS un polo industriale, essendo questa prevalentemente agricola. Dal canto suo Lenin (e non ignoriamo Stalin, allora Commissario per i Popoli e le Nazionalità) teorizzava sulla base del materialismo, come ogni componente della società fosse una sovrastruttura data dai rapporti di produzione: differenze come lingue, identità, storia e cultura non potevano sussistere, l’unica differenza era tra proletari e borghesi. Pochi decenni dopo Kruschev decise di seguire l’esempio di Lenin e donare alla RS Ucraina la Crimea, da sempre cuore pulsante della Russia, basti pensare alla Guerra di Crimea del XIX Secolo, all’epopea della Corazzata Potemkin e alla leggendaria resistenza di Sebastopoli contro il Reich, senza citare come proprio in Crimea si contraddistinsero i due eroi “marittimi” russi Ushakov e Nakhimov. Quando con la dissoluzione dell’URSS ogni repubblica sovietica divenne nazione indipendente a se stante, i confini rimasero quelli mille volte rimaneggiati nel corso della storia sovietica. Ora capite perché Putin disse alla vigilia dell’operazione militare speciale “volete la decomunistizzazione? Adesso ve la diamo noi”? Se l’Ucraina era così tanto nauseata dagli anni sovietici da voler cancellare ogni segno del passato comunista, allora coerentemente doveva rinunciare anche a tutti quei territori che i comunisti le avevano regalato calpestando la storia dei popoli.
Ma tornando sul discorso dell’indipendenza. In effetti prima della dissoluzione dell’Urss ci fu una Ucraina staccata da Mosca. Essa era l’Ucraina di Stepan Bandera, leader nazionalista e nazista ucraino, stretto alleato di Hitler, che all’indomani dell’Operazione Barbarossa, anziché opporsi all’invasore nazista lo accolse come liberatore, scendendo volenteroso al suo fianco e iniziando a rastrellare partigiani sovietici e cittadini ebrei. Nelle sue manie di protagonismo Bandera si reputava non un subordinato, ma un pari di Hitler, arrivando a proporgli il riconoscimento di una Ucraina indipendente alleata del Reich. Di tutta risposta Hitler che considerava gli “ucraini” niente più e niente meno di bassa manovalanza lo rinchiuse in carcere, salvo liberarlo quando l’Urss contrattaccò pesantemente facendo arretrare le forze tedesche: serviva ogni uomo possibile, Bandera compreso. Deve far riflettere come dal golpe di Euromaidan, Bandera sia diventato un eroe nazionale ucraino a cui sono dedicate vie, piazze e monumenti. Immaginatevi voi di trovare a Berlino una piazza A. Eichmann o una via H. Himmler. Follia? Eppure in Ucraina un elemento di tale risma trova largo spazio nella toponomastica. Il revival dei nazisti è stato già operato, guarda caso in tutti quei paesi, oggi stretti alleati della nato, se non proprio membri di questa: in Estonia esistono monumenti alle SS, in Lettonia i “Fratelli del Bosco” movimento di resistenza nazista è considerato un corpo di eroi nazionali, non parliamo poi degli Ustasha croati riesumati nella guerra contro la Jugoslavia dei primi anni ’90.
Eccoci allora ricollegati a quella questione già osservata nelle contese africane (perché il modello del nazionalismo ucraino non è un modello risorgimentale popolare come quello polacco o ungherese con secoli di storia, ma un etno-nazionalismo legato a un paese mai esistito se non dopo le manovre di Lenin prima e Hitler poi, fomentato dalle potenze occidentali negli ultimi anni). Il nazionalismo ucraino non differisce da un nazionalismo “katanghese”. Si sono recuperati elementi terroristici, li si è armati e sdoganati, e con un opera di revisione storica si è regalata loro un epopea nazionale che sino agli anni ‘20 era ignota agli “ucraini” stessi.
Che l’Ucraina esista come entità statale riconosciuta dall’Onu è un dato di fatto da cui non si torna indietro, ma da un punto di vista storico, e non politico, non si può non considerare l’Ucraina pari a un Veneto, una Normandia o una Galizia, un territorio che, a voler essere generosi, in un paese più grande avrebbe lo status speciale del Trentino. Ora però questo territorio è indipendente, ha inglobati in se territori assolutamente slegati da questa “epopea fantasy” del risorgimento ucraino, ed è in mano a manipoli neonazisti che su quei territori praticano repressione e pulizia etnica.
La necessità atlantica di destabilizzare la Russia doveva passare dall’Ucraina utilizzando quelle stesse componenti che 80 anni prima Hitler aveva creato per le stesse identiche necessità.
Ora concludiamo con un ultimo salto che ci riporta alle problematiche iniziali. Ma l’autodeterminazione dei popoli ha valore sì o no? Esistono indipendentismi di serie A o di serie B? La risposta ora apparirà più semplice. L’autodeterminazione dei popoli è un diritto sacrosanto, ma prima di tutto bisognerebbe studiare la storia di tali popoli per capire se essa è storicamente fattuale o se è un costrutto propagandistico esogeno. La storia degli Irlandesi, dei Greci, degli Svizzeri, dei Francesi, dei Polacchi, dei Magiari, dei Rumeni è una storia lunga secoli che si perde spesso in periodi antecedenti alla nascita di Roma, la storia degli ucraini semmai un inizio lo ha all’alba della nascita dell’Unione Sovietica. Ma che piaccia o no, questa componente regionale è assurta su spinta estera allo status di comunità nazionale e di “popolo”, avendo, da un punto di vista giuridico, ogni diritto all’autodeterminazione (anche se poi quel diritto lo nega ai russi in Crimea e Donbass). Molti dicono come mai prima d’ora esiste un “popolo ucraino”. In un certo senso l’intervento militare e il dolore smuovono quella hegeliana pappa del cuore arrivando a far nascere sentimenti sino ad allora sopiti di identità; la Russia era al corrente di questo ma un rinforzarsi del nazionalismo ucraino è dovuto sembrare a Mosca un male minore rispetto ai rischi che essa aveva calcolato dall’ingresso di Kiev nella Nato.
Bisognerebbe riflettere ora quale forma le minoranze, vere o presunte, dovrebbero avere in una prospettiva eurasiatica modellata come un unico blocco politico e diplomatico da Lisbona a Vladivostok. Sono dell’idea che il modello federale russo sia un ottimo compromesso. La Russia ha decine di nazionalità al proprio interno, garantisce a queste libertà di espressione nella lingua che esse ritengono opportuna, libertà di culto, statuti speciali. Circassi, osseti, tartari, ceceni, ebrei, sami, ingusci ed altri popoli vivono pacificamente, con riconoscimenti di statuto speciale all’interno di un unico stato russo. Ai russi del Donbass era invece vietato anche solo parlare la propria lingua. Molti errori vennero fatti a Versailles, a Yalta ed ancora nel 1989-1991. Tornare indietro sembra impossibile, sarebbe necessario un impegno comune nella direzione del riconoscimento della diversità all’interno di grandi, potenti e sovrani blocchi statali. Ancora una volta il modello russo si dimostra il più europeo di tutti.