Di: Giulia Constantini
Come i comfort di oggi compromettono il nostro domani
“L’umanità non ha tessuto la rete della vita. Noi non siamo che un nodo. Qualsiasi cosa facciamo alla rete, la facciamo a noi stessi”. Così, negli anni Cinquanta, il capo indiano Seathl chiedeva al presidente degli Stati Uniti di fermare l’orda di distruzione e sfruttamento della Terra, con la trasparenza e la risolutezza di chi è consapevole di essere parte, e non padrone, di qualcosa di immenso ed eterno.
Non si può dire che la situazione sia
migliorata. Accordo più, accordo meno, oggi più che mai l’uomo “prende” dal
mondo molto più di quanto gli spetti, ingabbiato nelle logiche di una
produzione che non tiene minimamente conto di quali e quanti siano i veri
bisogni, ma che preleva e trasforma le risorse con l’unico fine del profitto.
Sì, perché oggi abbiamo tutto, ma quanti
dei beni a cui abbiamo accesso ogni giorno ci servono davvero? Viviamo
circondati da comodità non solo superflue, ma forse d’intralcio. I finti
problemi ci privano di esperienze e sensazioni, portano via gran parte del
nostro tempo e ci restituiscono una vita edulcorata, più comoda e sicura, ma
non necessariamente più felice. Ad oggi, risulta che il 16% della popolazione globale sia responsabile per il 46% delle
emissioni di agenti inquinanti – e no, quel 16% non comprende nessun paese
in via di sviluppo, ma solo gli USA e parte dell’Europa. Bisognerebbe
ricalibrare il discorso in termini di risorse, più che di emissioni, ma
interpretando molto indicativamente questo dato si può stimare che ognuno di
noi, con le sue scelte quotidiane, si prenda quasi il triplo di quello che gli
spetta.
E come ogni cosa su questa terra, il nostro benessere di certo non è
gratis. Peccato che a pagare non siamo noi, ma chi deve ancora nascere, oppure
quelle persone che non incontreremo mai: le vittime delle tante guerre per il
coltan, per il cobalto, per l’acqua, le popolazioni sfruttate nella produzione
del cotone e del caffè, chi si è ritrovato senza terra coltivabile dopo
l’urbanizzazione forzata e chi affronta le carestie dovute al riscaldamento
globale.
Quanto ai “noi” del futuro, neanche il loro destino è al sicuro. Molte delle
risorse che utilizziamo sono esauribili – e prevedendo un costante incremento
demografico, senza nessuna razionalizzazione nell’estrazione mineraria o nella
trasformazione delle materie prime, la loro vita potrebbe essere radicalmente
diversa. Un esempio lampante riguarda l’acqua: un terzo di quella utilizzata
dall’uomo proviene dalle falde acquifere sotterranee. Queste si rigenerano
molto lentamente (solo del 6% in cinquant’anni) e non tengono il passo con
l’utilizzo attuale (peraltro molto invasivo, dato che spesso coinvolge sostanze
contaminanti), in campo agricolo ed industriale.
Un altro fattore incontrollabile e
potenzialmente distruttivo è la perdita di biodiversità, la distruzione di
habitat che porta all’estinzione di specie e popolazioni animali e vegetali.
L’operato umano si innesta infatti su equilibri molto complessi e delicati, e
per gli scienziati è particolarmente difficile analizzarne le conseguenze.
Per quanto possano sembrare circostanze poco correlate alla nostra “comodità” quotidiana, la relazione c’è, e non è neanche troppo sottile.
I gadget plasticoni che pagate due euro più la
spedizione vanno a pesare sull’enorme impatto ambientale dei trasporti su
lunghe distanze, oltre che su quei 2.77 miliardi annui di tonnellate di CO2
legati alla produzione industriale. A livello globale, si stima che più della
metà degli oggetti in plastica venga buttata entro un anno dalla produzione.
Il 6% dell’anidride carbonica emessa serve a produrre cibo che viene sprecato.
È straordinariamente alto anche il costo ambientale dell’alimentazione
“moderna”, totalmente irrazionale, spesso troppo ricca, fatta di cibi
super-trasformati, impacchettati e privi di territorialità e stagionalità.
Quella della carne è un’altra questione spinosa, che non si può più ignorare: 1
kg di carne bovina “low cost” da allevamenti intensivi richiede oltre 15.000
litri d’acqua.
Riscaldamenti, impianti di aria condizionata, elettricità onnipresente e
infiniti dispositivi tecnologici, in ambito domestico e soprattutto
commerciale, vanno a costituire il fattore più incisivo nella produzione di
anidride carbonica e gas serra (15 miliardi di tonnellate all’anno).
Molti dei beni più comuni hanno filiere lunghe e di elevato impatto ambientale.
Ad esempio, per quanto riguarda l’abbigliamento:
- la produzione di tessuto sottrae terra all’alimentazione umana e ai vari ecosistemi;
- la coltivazione di fibre vegetali prevede l’utilizzo abbondante di diserbanti e sostanze pericolose destinate a rimanere in circolo a lungo;
- la trasformazione dei prodotti richiede energia e soprattutto fa un uso massiccio di metalli pesanti e sostanze tossiche;
- l’industria della moda è responsabile del 20% della contaminazione delle acque, utilizzate in molti dei processi industriali a cui vengono sottoposti i tessuti, e quasi mai purificate prima di essere reimmesse nell’ambiente.
I dati dunque confermano quello che direbbe il
semplice buonsenso: i vestiti comprati e buttati via annualmente perché il
prezzo stracciato ci consente di farlo senza sensi di colpa, le fragole a
febbraio, i cibi (esotici e non) che fanno migliaia di chilometri prima di
arrivare a tavola, i mille “capricci”, che spesso sono più delle necessità
imposte nella nostra quotidianità, hanno un peso reale e determinante in questo
tragico bilancio.
È profondamente ingiusto – nei confronti
della Vita stessa, in tutte le sue forme –
lasciarci alle spalle, dopo il nostro passaggio, un pianeta più povero,
sporco e sterile, a cui abbiamo solo “preso”, senza capire né sentire, e senza
mai rendere niente.
Se l’idea di vivere come sanguisughe ci sembra abominevole, forse è il momento
di “togliere il pilota automatico” e cominciare a farci due conti.
Quando andiamo in un bosco, al cospetto della sacralità e della bellezza, senza
neanche rendercene conto cerchiamo di
rispettare il silenzio e di non lasciare troppi segni del nostro passaggio.
Il segreto è cercare di fare la stessa cosa anche quando torniamo a casa.
Acquisire consapevolezza del peso delle nostre azioni, cercare, informarsi,
scoprire come possiamo “alleggerire” la nostra presenza sulla Terra. Non da
ultimo, potremmo chiederci cosa possiamo dare
di nostro alla Terra: una giornata di lavoro? Un albero in più piantato in
una foresta? Una testa pensante che sappia trovare soluzioni nuove?
Ragionare così è uno dei tanti scalini di quel
processo che ci porta a diventare
padroni di noi stessi. È un modo per
superare il bieco individualismo di un’umanità che vede solo il presente, ma
anche per riappropriarsi della nostra autonomia, per diventare uomini migliori,
meno influenzabili e meno posseduti dal
superfluo. Per dirlo con le parole del rapper Rancore, prima che diventasse
mainstream: butta tutti i tuoi capricci
ed esprimi un desiderio.
Se siamo convinti di essere persone solide e concrete, è il momento di metterci
alla prova. Sono scelte urgenti da
compiere. Per non fare terra bruciata sul futuro, ma anche per vivere davvero
il presente.