Di Andrea Giumetti
Energico, artistico, rabbioso, eversivo. Il film, che mette su pellicola il famosissimo romanzo semi-biografico di Emanuel Carrère, ricorda molto una di quelle granate che di Limonov furono il simbolo e lo pseudonimo.
Innanzitutto, bisogna togliersi un sasso dalla scarpa: per chi conosce il personaggio e la storia di riferimento, molti dei momenti salienti della Mosca degli anni di El’Cin vengono riassunti sommariamente per immagini e concetti. Inoltre, il film arriva solo fino alla liberazione dal carcere di Limonov, nel 2003, per cui gli eventi più recenti sono riassunti in un piccolo sommario che precede i titoli di coda. A pensarci bene, non avrebbe potuto essere che così: nell’epoca della censura morbida, dove l’oblio e la pena inflitta per i trasgressori, bisogna recuperare le astuzie del ‘900, e imparare nuovamente a dire le cose senza dirle.
Detto ciò, il film è sostanzialmente diviso in tre parti: la prima e l’ultima ci parlano della Russia, mentre la centrale, e più corposa, è invece dedicata agli anni in cui l’autore russo visse a New York. Nel contrasto tra la Madre Russia e il mondo di lampadine e cumuli di spazzatura degli Stati Uniti (dal 1974 al 1982, per cui è evidentissimo e molto marcato il passaggio dalla fine dell’età dell’oro all’arrivo della crisi che pavimenterà la strada al neoliberismo reganiano), sta tutta la poetica nascosta del film.
Limonov incarna il giovane ribelle, che pensa profondamente di meritare di più dalla vita e ha un bisogno patologico di emergere, ma vive in un sistema che non glielo consente senza che questi si conformi allo standard. Si fa esiliare dall’URSS assieme alla giovane e bella moglie, e ha una vera e propria ubriacatura di mondo occidentale: i suoi colori scintillanti, i costumi rilassati, la miriade di gruppi di protesta che alla luce del sole manifestano il loro dissenso cantando e abbracciandosi, la promessa di poter emergere sopra le masse ed essere adorato come un eroe. Limonov non lo sa, ma è arrivato troppo tardi: il suo personaggio in America è già stato spolpato fino all’osso dai Beatnick, e la sua voglia di rivoluzione, di violenza non mortificante ma contro il sistema, di provare qualcosa di vero, inevitabilmente risulta fuori luogo. Ad ogni buon conto, per uno come Limonov, la fascinazione dell’America è inebriante, se non che, in uno sviluppo molto umano, comincia ad incrinarsi nel momento in cui la bella Elena, sua moglie, lo lascia per continuare la sua carriera di modella. Ecco allora che, nella routine della mondanità liberale, comincia ad emergere il nichilismo esistenzialista che propriamente caratterizza ogni grande autore russo, e che segna l’inizio del conto alla rovescia verso un destino che lo stesso Edward ci presenta: esplodere in un atto psicotico conto gli altri, finendo però per essere quello che egli stesso identifica come “un perdente”, oppure evadere dalle gabbie di specchi (gli specchi sono un topos ricorrente nel film) e portare tutta la rabbia e la delusione verso qualcos’altro.
Nel compiacimento dell’occidente per l’evidente declino, e futura fine dell’URSS, Limonov riscopre l’orgoglio della sua identità di russo, sublimato da una frase che, nel 2024, suona incredibilmente profetica: “la Storia non è finita, e tornerà a prendervi a calci nel culo”. Quando la Perestroika, che l’autore abbraccia come fine di un vecchio e stantio periodo che loro stessi hanno contribuito a far cadere, notabilmente mentre i vecchi comunisti rimpiangono Stalin, gli dà l’opportunità di ritornare nella Madrepatria, e lui la coglie, per far finalmente partire quella detonazione che lui da sempre cova dentro, ma che anni di mondo “al di fuori” gli hanno fatto maturare. Naturalmente, Limonov non sarebbe un grande scrittore russo se ogni suo sviluppo non andasse inevitabilmente a risultare nel nulla: il partito dei Nazbol che lui fonda e che incarna la sua figura, alla fine rimane schiacciato negli ingranaggi della nuova Russia che emerge dai rottami del disastro El’ciniano. Come Capitan Harlock, Limonov e i suoi non possono accettare i compromessi che il costruire inevitabilmente richiede: la loro è una lotta genuina, eversiva e incendiaria, che come una meteora corre verso la grande meta dell’umanità, l’irraggiungibile eternità.
Insomma, Limonov è un film che tutti possono vedere e apprezzare, soprattutto per il fatto che il regista Kirill Serebennikov ha creato una pellicola dall’altissimo valore artistico, che con il colore, la fotografia e la musica incarna perfettamente la trasformazione psicologica del suo protagonista. Attraverso una serie di omaggi visivi e stilistici ad Andreij Tarkovskij, la profonda genuinità umana dell’aggregazione dei ragazzi sovietici a Karkiv non può che creare uno strano senso di nostalgia verso qualcosa che, nella stragrande maggioranza dell’audience, non si è mai conosciuto; subito dopo, gli orpelli del bel mondo di Mosca, che già puzza di artificiale e borghese, e che lasciano il passo a due ragazzi innamorati che ridono e mordono l’amplesso sulle rive del Mar Nero. Dal loro dolce e giovane sesso tra le onde, si passa a qualche spezzone di un film porno americano, che ci lancia nell’umido underground newyorkese. E poi la salita nelle torri di cristallo degli appartamenti del bel mondo, ma solo come servitore, gli uffici degli editori dove migliaia di idee restano a marcire sulle scrivanie dei burocrati, i cumuli di immondizia e la miseria umana che tengono a braccetto la follia e l’esaurimento nervoso. Il vero che ritorna, nell’abbraccio post coito con un barbone nero, solo per essere nuovamente sommerso dal balletto di un mondo incatenato alle sue illusioni. E poi c’è Mosca, con i suoi muri non trattati chimicamente che ospitano gli scarafaggi, le sue persone segnate da una dura vita di lavoro che si assiepano per parlare con uno scrittore, i suoi ricordi di orgoglio e dolore della Grande Guerra Patriottica, ma anche le incertezze di un sistema monolitico che si sfalda.
Infine, arriva il bunker, l’esplosione punk del Nazbol, la sublimazione della voglia di rivalsa aggressiva dei giovani, che sono stufi di vivere in una società di vecchi arricchiti che soffoca le loro forze. La voglia di vero, sempre e comunque. E all’uscita dalla sala di proiezione, lo spettatore avrà inevitabilmente la stessa famelica voglia di vivere qualcosa che sia vero, in un mondo finto e con la perversione dell’artificiale.