Avevamo già tentato di sottolineare, circa un mese fa, come le radici storiche e culturali dello Stato “nazionale” israeliano fossero ben più russo-sovietiche che occidentali, e come le élite israeliane stessero precipitando in una profonda e irresolubile impasse strategica, in una vera e propria crisi d’identità. Dopo decenni di liaison tra Israele e Washington, particolarmente e strategicamente forte quella che va dal 2001 al 2016 tra i neoconservatori di oltreoceano e quelli israeliani (entrambi provenienti dalla sinistra radicale internazionalista, socialista e filosovietica), i vari dipartimenti di sicurezza statunitensi paiono oggi distanziarsi di nuovo dal sionismo politico e militare. Va considerato, a tal proposito, che Democratici e Repubblicani negli USA altro non sono che forme politiche, finanziarie e sociali di due autentiche scuole della Sicurezza Nazionale oggi più contrapposte e antagoniste che mai; entrambe queste scuole strategiche (con proiezione storicamente euro-britannica quella dei Dems; assolutamente americana, antibritannica e antieuropea quella repubblicana del Gop) hanno prima preso le distanze, poi condannato in modo sempre più deciso e risoluto l’applicazione della “Dottrina Dahiya” da parte di Israele, in seguito all’offensiva islamica palestinese del 7 ottobre.
La Dottrina Dahiva nasce nel 2006 su iniziativa di Gadi Eisenkot, ex capo di stato maggiore di IDF (Forza di difesa israeliana) e adesso nel consiglio ristretto: la teorizzazione, in quel contesto, di massicci e asfissianti bombardamenti sul quartiere roccaforte sciita di Hezbollah durante il conflitto del 2006 (Dahieh di Beirut che, traslitterato, dà quindi nome alla dottrina strategica israeliana) si afferma come una precisa tattica contro-insurrezionale, finalizzata all’annientamento strategico di ogni infrastruttura urbana civile per togliere alla guerriglia l’acqua in cui può nuotare.
Da allora tale Dottrina ha fatto scuola nei vertici dell’élite militare e di intelligence di Tel Aviv. Eisenkot è probabilmente il più grande stratega israeliano contemporaneo; la sua famiglia è stata falcidiata dalla guerriglia islamica palestinese, ha perso recentemente in battaglia, a Gaza, un figlio di 25 anni, dopo aver già perduto vari nipoti e parenti, sempre in battaglia. Una vita al fronte per la stella di Davide e per la gloria israeliana, si potrebbe dire.
Strategicamente, come interpretare la Dottrina Dahiya? Come una sostanziale e poco originale ripetizione della tattica dell’OAS francese nella battaglia di Algeri e dell’esercito russo nella lunga e deleteria guerra di Putin contro la Cecenia; in entrambi i casi abbiamo visto proprio le forze militari tecnologicamente superiori sconfitte dalla più debole guerriglia resistente – sia nel caso del nazionalismo algerino antifrancese, sia nel caso del nazionalismo islamico ceceno antirusso –, dato che Putin non può tuttora occupare manu militari la fiera e indomita Cecenia, ma è costretto a lasciare il potere e l’amministrazione di Groznyj a una frazione, quella dei Kadyrov, storicamente avversaria del potere imperiale russo, collaborazionista solo in seguito alle sgradite interferenze arabe nel fronte islamico integrale di Shamil Basaev, caduto nel 2006. Se vi fosse un’aperta ed evidente presenza militare russa nelle roccaforti cecene, riprenderebbe immediatamente la feroce guerriglia nazionalista antirussa.
Tornando al conflitto mediorientale dei nostri giorni, la Forza militare israeliana avrebbe eliminato sino a oggi circa 70 dirigenti di significativo livello della guerriglia islamica palestinese, ma avrebbe perso circa 130 militari: cifra assai importante in due mesi di attività. È vero, ed era inevitabile, che i battaglioni di Hamas, in particolare Gaza e Northern Gaza, sono stati ridimensionati, ma è anche vero che la resistenza di guerriglia urbana rimane forte nella sua tattica asimmetrica e morde come nei primi giorni. Se dunque Israele, nel giro di un breve spazio temporale, non riuscirà a eliminare i vertici di Hamas (Yahya Sinwar o Mohammed Deif) o non si mostrerà in grado di annichilire gli altri fuochi della resistenza sciita anti-israeliana che colpiscono ai fianchi (Libano, Yemen), la Dottrina Dahiva rischierebbe di precipitare nell’oscuro terreno dell’auto-logoramento strategico: campo in cui la sta trasportando Hamas dal 7 ottobre.
Si consideri altresì che i consiglieri del campo della Sicurezza Nazionale Statunitense Dems hanno sicuramente rinfocolato la retorica “anti-israeliana” di Biden di questi giorni, e quelli del GOP hanno ricordato a Trump – se ce ne fosse stato bisogno – che gli israeliani furono i primi al mondo, nell’autunno del 2020, a congratularsi con Biden dopo quella che il popolo repubblicano considera una vera e propria elezione truffa. E non a caso il tycoon, nel corso dei suoi comizi elettorali, non ha potuto fare a meno di definire “geniale” la guerra asimmetrica di Hezbollah e “sprovveduta” la Sicurezza Nazionale israeliana, paragonata a quella di Biden sui confini.
Alla luce di tutto ciò, non deve perciò stupire che forze militari e di intelligence israeliane stiano insistentemente cercando – ancora una volta, come è sempre avvenuto nei loro momenti decisivi – la sponda russa. Con un Biden sempre più in difficoltà, sconfitto in Ucraina e inascoltato nel mondo, e con un Trump ben deciso, se rieletto dal 2024, a regolare definitivamente i conti con il partito comunista di Xi e con l’Unione Europa (che per il leader repubblicano altro non sarebbe che una colonia economica e tecnologica al servizio di Pechino), Putin è rientrato di forza al centro dei giochi diplomatici e potrebbe ricevere udienza dalle élite israeliane più di quanto la possano ricevere gli ormai screditati Dems con i loro strateghi di Sicurezza. Il presidente russo è peraltro molto sensibile alle motivazioni spirituali del movimento Chabad Lubavitch, una ramificazione dell’ebraismo chassidico a cui Netanyahu è da sempre strettamente legato. La Russia potrebbe così ritrovare in Medioriente quello spazio politico vitale sottrattogli dalla Cina alle porte di casa.