Di: Michela Bianconi
Il viaggio nelle profondità di se stessi
“Apri la mente a quel ch’io ti paleso e fermalvi entro;
ché non fa scienza, senza lo ritenere, aver inteso…“
(Dante Alighieri)
Apri la mente a ciò che ti mostro e fermati al suo interno. Giacché intendere (o sentire), senza ritenere (cioè senza aver fatto proprio), non crea alcuna conoscenza.
Una parafrasi piuttosto artigianale del Sommo Poeta, che in quest’anno e in questo mese (il 25 marzo si celebra, infatti, il Dantedì), vogliamo a maggior ragione riprendere e riconsiderare. E questo non solo perché l’autore ci ha donato un linguaggio padre di quello che effettivamente ad oggi utilizziamo, ma piuttosto perché questo fiorentino dal naso grosso, con la propria arte e la propria bellezza, ci ha lasciato pagine e pagine di impressioni che meglio di qualsiasi altre stanno lì a ricordarci del meraviglioso (anche se a tratti inquietante) viaggio che ciascuno di noi, prima o poi, nella vita, sarà chiamato ad affrontare.
Il viaggio nelle profondità di se stessi.
Ma non corriamo troppo e procediamo per gradi.
Stiamo all’opera e al significato che potrebbe avere, ai giorni nostri.
Iniziamo dalla descrizione di una sensazione che ha a che fare con lo smarrimento, con l’impressione, spaventosa, di essere improvvisamente calati in una realtà non prevista, un mondo incerto, a tratti oscuro, che ci fa sentire privi di una direzione e di una guida. Qualcosa che, in questi giorni di pandemia, con le loro continue chiusure e riaperture, con le maschere che rendono irriconoscibili i volti, i distanziamenti e i divieti di spostamento, sicuramente non avremmo difficoltà a riconoscere e a nominare.
E allora…
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
Versi che appartengono, ormai, alla memoria collettiva. E che al collettivo, evidentemente, si rivolgono, trasportandoci, insieme al narratore, nelle sue atmosfere oniriche.
Siamo tutti, infatti, prima o poi, chiamati a confrontarci con il caos, quella condizione di addensata confusione, che sembra divellere da principio ogni punto di riferimento, oscurato e confuso in una nebbia strana che, privandoci di una direzione, ci costringe ad attivare i sensi, inducendo uno stato di agitazione immateriale.
Ansia. E stress.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Una condizione difficile da accettare e ancor più da tollerare, tant’è amara che poco è più morte. Ma che pure, nella sua disturbante scabrosità, può rivelarsi ricca di doni. Talmente tanto, che lo stesso Dante, dopo averci accompagnato al suo interno, sente immediatamente l’esigenza di rassicurarci:
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.
L’autore, per sua stessa ammissione, non sa bene come sia giunto di fronte a quella selva, è stanco e terrorizzato. Eppure, a un certo punto, si lascia catturare da un particolare che sembra incidere perfettamente sul suo stato d’animo.
Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,
guardai in alto, e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.
Il sole, che guida ogni uomo nella propria strada, sta sorgendo. E ciò basta a rinfrancare il cuore sconvolto del poeta che, sentendosi alla stessa stregua di un naufrago alla vista della spiaggia, finalmente si concede così di guardare verso il mare che avrebbe potuto ucciderlo, e si sente meglio.
Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che ‘l piè fermo sempre era ‘l più basso.
È così che ha inizio il viaggio di Dante, il 25 marzo dell’Anno 1300, durante la settimana che precede la Pasqua.
Inizia con una fuga in solitudine.
La ricerca spasmodica della luce, che inevitabilmente è preferita all’ombra.
Una fuga in salita che, tuttavia, ha vita breve, giacché tre fiere giungono ad interromperla: la Lonza, il Leone, la Lupa, emblemi di cupidigia, superbia e lussuria, costringendo il Poeta a tornare sui suoi passi e sancendo così il carattere necessario del suo viaggio verso il basso.
Come se non ci fosse altra via percorribile.
Sia ben inteso: nell’allegoria medievale che l’autore certamente incarna, tale necessità sembra rispondere all’esigenza teologica di vedere lo smarrimento e la caduta come una conseguenza del peccato (ché la diritta via era smarrita).
Quando ci sentiamo soli e sperduti in questa valle, siamo pecorelle smarrite che si sono allontanate dal sentiero della redenzione, della grazia e della fede, e di conseguenza della speranza. Non sentiamo più il richiamo del pastore e non ubbidiamo ai latrati del suo cane, che non si stanca di inseguirci rimordendoci la coscienza…Questo è il salario del peccato[1].
A noi, tuttavia, non interessa intraprendere discorsi moralistici.
Nella psiche non esiste giusto o sbagliato.
E preferiamo pertanto affrontare questo discorso partendo da un altro punto di vista: quello che narra della fondamentale importanza di diventare noi stessi, imparando a conoscere noi stessi e ciò che, dentro di noi (che ci piaccia o meno) ha bisogno di essere ed esprimersi.
E così, facciamo riferimento a Carl Gustav Jung, per il quale:
Non c’è presa di coscienza senza sofferenza.
In tutto il mondo la gente arriva ai limiti dell’assurdo
per evitare di confrontarsi con la propria Anima.
Non si raggiunge l’illuminazione immaginando figure di luce,
ma portando alla coscienza l’oscurità interiore[2].
E facciamo riferimento a James Hillman, per il quale tutto ciò che siamo chiamati ad essere, è già interamente presente in noi, fin dalla nostra nascita. Possiamo eluderlo, possiamo dimenticarlo, possiamo anche pensare di evitarne una parte. Ma, prima o poi, esso giunge a bussare alla porta della nostra conoscenza, e s’impone dinnanzi ad essa, anche solo semplicemente per essere visto e riconosciuto. È così che veniamo chiamati ad affrontare le ricchezze nascoste nelle profondità insite dentro di noi, iniziando, per l’appunto, la discesa.
La mitologia, il cinema e la letteratura sovente ci presentano immagini di questo tipo.
Eroi, guerrieri, poeti che improvvisamente vengono chiamati ad addentrarsi in un mondo oscuro, spesso nello stesso mondo infero, alla ricerca di consigli, di qualcosa o di qualcuno che li aiuti ad affrontare un nuovo compito evolutivo. Certo, ciascuno di essi ha un proprio modo di interfacciarsi con tutto ciò e con chi gli si pone di fronte. Un bagaglio culturale, potremmo chiamarlo così, dettato anche dalle esperienze fatte prima di quel viaggio, che si sono loro cucite addosso e che ne determinano, in un modo o nell’altro, il comportamento e l’attitudine allo scopo. C’è Eracle, ad esempio, o Ercole, che abituato com’è a combattere nemici visibili, scende nelle profondità dell’Ade con la spada sguainata, pronto ad attaccare e uccidere chiunque possa pararglisi dinnanzi, come se non fosse già morto di per sé. Incapace di accogliere le anime che gli si apprestano per comunicare qualcosa, e forse spaventato, egli dunque lotta e sferra inutilmente colpi a destra e a manca finché Ermes, messaggero degli dèi, non è costretto a fermarlo, mostrandogli quanto possa apparire vano un simile spreco di energie: tentare di ferire ed eliminare ombre senza corpo.
Poi c’è Enea, che nel mondo “di sotto” scende per ricongiungersi col padre Anchise e conoscere il proprio destino. E Orfeo che, mosso dal dolore per la perdita della sua amata Euridice, vi s’immerge con tanto di cetra, per intrattenere e allietare le anime, alla ricerca disperata del consenso di poter riportare in vita la sua sposa.
Per ciascuno di loro, quest’immersione funge da risveglio.
Eracle scopre che non si può domare l’invisibile.
Enea che è tempo di lasciar Didone e recarsi in Italia, per dare origine alla dinastia che, poi, col tempo avrebbe portato alla nascita di Roma e dell’illustre impero romano.
Orfeo scende per scoprire che la donna che ama non gli appartiene più. E che, se pure Euridice, nel concreto non potrebbe mai tornare con lui a passeggiare per boschi e campi, allo stesso modo l’immagine di lei non lo lascerà mai. Cambia la forma ma non il contenuto.
Un viaggio iniziatico dunque. Un viaggio che volge alla scoperta di qualcosa di nuovo, di una nuova conoscenza. E che, pertanto, poggia i piedi proprio su quella citazione dalla quale sia partite nella stesura di questo articolo.
Apri la mente a quel ch’io ti paleso e fermalvi entro;
ché non fa scienza, senza lo ritenere, aver inteso…
Un viaggio da affrontare e compiere consapevoli di ciò che si sta facendo. Aperti e accoglienti, nei confronti di tutto ciò che vi si può trarre.
Perché, però, verrebbe quasi sa obiettare a questo punto, dev’essere proprio il caos il punto di partenza?
Da Caos nacquero Erebo e nera Notte.
Da Notte provennero Etere e Giorno
Che lei concepì a Erebo unita in amore.
Gaia per primo generò, simile a sé,
Urano stellato, che l’avvolgesse tutta d’intorno,
che fosse ai beati sede sicura per sempre.
Generò i monti grandi, grati soggiorno alle dee
Ninfe che hanno dimora sui monti ricchi d’anfratti;
essa generò anche il mare infecondo, di gonfiore furente,
Ponto, senza amore gradito; dopo,
con Urano giacendo, generò Oceano dai gorghi profondi,
e Coio e Crio e Iperione e Iapeto,
Teia Rea Temi e Mnemosine
E Foibe dall’aurea corona, e l’amabile Teti;
e dopo questi, per ultimo, nacque Crono dai torti pensieri,
il più tremendo dei figli, e prese in odio il gagliardo suo genitore[3].
Ogni immagine di inizio, inizia dal Caos come da una sorta di prima mater (intesa nella doppia accezione di madre e materia ancestrale) gravida di vita allo stato embrionale. Indifferenziato.
Come un uovo, esso contiene, infatti, in sé tutti gli opposti come contrari non ancora separati. Da qui l’aspetto di confusione, etimologicamente “stato di fusione con”. Perché non esiste differenziazione nell’uovo primordiale. Esso è autarchico, autosufficiente e soddisfatto in sé. Il cosiddetto Archetipo dell’Uno-Tutto che dice: “Io sono l’alfa e l’omega”.
In questo luogo di perpetua coabitazione degli opposti, che potremmo rappresentare anche come un Uroboros che divora, partorisce e uccide se stesso, è contenuta la creatività di ogni inizio, come un accumulo di energia indifferenziata in attesa di poter prendere una forma. E ricca, pertanto, di talmente tante potenzialità tutte arruffate l’una sull’altra da rischiare, per l’appunto, di spaventare.
Diventa chiaro, a questo punto, comprendere la difficoltà che ciascuno di noi ha con questo Caos che sembra inghiottire tutto ed eliminare ogni punto di riferimento. E diventa quasi scontato, allora, rinotare come l’effettivo senso di smarrimento descritto da Dante nei primissimi versi della Divina Commedia, sia, in realtà, la descrizione allegorica di una fondamentale e comune esperienza collettiva. Un’esperienza che, però, sicuramente porterà al bene, se la si attraverserà con “la mente aperta” e si imparerà a nominare le innumerevoli cose che vi si possono scorgere.
In fondo, non è forse solo penetrando nell’occhio del ciclone che diventa possibile comprendere quali oggetti esso sta trascinando con sé, nel proprio vortice caotico?
Si comincia dal Caos, quindi, e al Caos si ritorna ogni volta che un nuovo processo psichico sta per attivarsi. Come a dire che, per apportare un cambiamento e per creare qualcosa di nuovo, occorre prima di tutto ricongiungersi con l’indifferenziato. Gli stessi alchimisti partivano da un presupposto simile. Nessun oggetto, nessuna materia può essere trasformata se prima non viene ricondotta al suo stato originario. Pensiamo, ad esempio, a un ciondolo d’oro. Se la nostra idea è quella di modificarlo così che possa diventare un anello, occorre prima fonderlo, per poi dargli una nuova forma.
È a questo che serve lo smarrimento.
È a questo che serve il senso di solitudine che si prova di fronte a un viaggio tanto duro.
Occorre separarsi da tutto ciò che si pensava di sapere fino a quel momento. Tornare a confrontarsi con l’origine.
E l’origine di ciascuno di noi sta dentro di noi.
Per questo parliamo di una psicologia (intesa come discorso sulla psiche) del profondo, che ci costringe a guardare le cose in profondità.
Eraclito è il primo a collegare psyche, logos e bathun (profondo): “I confini dell’anima non li potrai trovare, neppure se percorressi tutte le strade: così profondo è il suo logos”. Come scrive Bruno Snell, in Eraclito “l’immagine della profondità serve a illuminare la caratteristica precipua dell’anima e della sua sfera, che è quella di avere una dimensione sua propria, di non possedere espansione spaziale”. A partire da Eraclito, la profondità diventò la direzione, la qualità e la dimensione della psiche. L’espressione, ormai di uso comune, “psicologia del profondo” afferma esplicitamente: per studiare l’anima, dobbiamo scendere in profondità, e ogni volta che scendiamo in profondità, viene coinvolta l’anima…Il visibile, ciò che è soltanto naturale, non soddisfa mai l’anima. L’anima desidera andare oltre, sempre più addentro, sempre più in profondità. Perché? Eraclito risponde a questa domanda: “La trama nascosta è più forte di quella manifesta”. Per giungere alla struttura fondamentale delle cose occorre penetrare nella loro oscurità”[4].
Che, poi, il viaggio di Dante, come quello di ciascuno di noi, debba necessariamente rimandare alla dimensione della profondità, oltre che dalle fiere, è ulteriormente ribadito anche qualche altro verso dopo, quando l’autore, fuggendo di nuovo verso la selva, finalmente scorge qualcuno farglisi avanti.
Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.
Quando vidi costui nel gran diserto,
“Miserere di me”, gridai a lui,
“qual che tu sii, od ombra od omo certo!”.
È così che il Poeta, infatti, incontra Virgilio e, dopo avergli chiesto aiuto per raggiungere la sommità della collina dietro la quale sorge il sole, aggirando ovviamente le bestie feroci che glielo avevano impedito fino a quel momento, si sente rispondere in modo del tutto inaspettato: “A te convien tenere altro viaggio…se vuo’ campar d’esto loco selvaggio”.
Devi intraprendere un’altra strada, se vuoi uscire da questo luogo selvaggio.
Non esistono scorciatoie, dunque.
Se Dante davvero desidera ascendere verso la luce, deve prima affrontare il viaggio che lo porterà ad attraversare l’oscurità.
Un viaggio che lo porterà sempre più in basso, fin quasi al centro della terra.
Ma un viaggio che, tuttavia, non sarà più costretto ad affrontare da solo.
Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno…
Virgilio, infatti, non solo si offre di accompagnare Dante nella sua discesa, ma gli prospetta anche la possibilità di compiere una risalita guidato da un’anima più degna.
E io a lui: “Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
acciò ch’io fugga questo male e peggio,
che tu mi meni là dov’or dicesti,
sì ch’io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti”.
Allor si mosse, e io li tenni dietro.
È così che termina il primo canto dell’Inferno, con un’immagine che tranquillizza e che placa quell’iniziale senso di solitudine e scoramento col quale aveva avuto inizio. Sappiamo, di nuovo, infatti, che la discesa è solo il primo tratto da percorrere e che a ben più alte strade è destinato il Poeta prima di ritornare al suo mondo diurno.
Come a dire che non c’è ascesa e non c’è rinascita se prima non si cade a fare un bagno nelle profondità del mondo infero.
Il mondo infero è psiche. Quando usiamo l’espressione “mondo infero”, facciamo riferimento a una prospettiva totalmente psichica, dove l’intero nostro modo di essere è stato desostanzializzato, spogliato della vita naturale, e tuttavia, in ogni forma, senso e dimensione, è la copia esatta della vita naturale…Questo significa che la prospettiva del mondo infero modifica radicalmente la nostra esperienza della vita. Essa non ha più importanza per come è, importa solo dal punto di vista della psiche…È alla lue della psiche che vanno lette tutte le descrizioni del mondo infero. Essere nel mondo infero significa essere psichici, essere psicologici, essere dove l’anima viene per prima…Dunque leggeremo tutti i movimenti verso questo regno di morte…come movimenti verso una prospettiva più psicologica[5].
Una prospettiva che ci riconduca direttamente verso ciò che siamo realmente, nel cuore della nostra anima.
È così che il viaggio diventa un viaggio verso la conoscenza di noi stessi. Una conoscenza che viene perpetrata tra sé e sé, alla scoperta della ricchezza immensa che si cela dentro di noi.
Del resto l’opera da cui siamo partite per parlare di tutto ciò ha per titolo “Commedia”, come Dante stesso aveva preferito nominarla.
“Cum + media”: qualcosa che già in sé richiama l’esigenza di entrare in relazione.
Ma entrare in relazione con chi, se non con gli innumerevoli immaginari e le innumerevoli ombre (intese come anime senza corpo, cioè senza forma), che popolano il nostro mondo interiore?
E allora prendiamo spunto da Dante, con la consapevolezza che anche noi, nel nostro implicito viaggio, non saremo mai lasciati soli. Mediamo. Parliamo, ascoltiamo tutti coloro che ci si pongono di fronte. Accogliamo e facciamo nostri i messaggi di tutti quei personaggi che, come nei sogni, potremmo incontrare durante l’esplorazione, ché non fa scienza, senza lo ritenere, aver inteso.
Nominiamoli. Guardiamoli.
Differenziandoli, sempre di più, dallo stato di confusione nel quale versano. E facciamoci carico delle loro storie, come nostre, giacché queste sono la nostra ricchezza più grande.
Una ricchezza inestimabile.
Prepariamoci, dunque, ogni qual volta ci sentiamo dinnanzi a una selva oscura.
Predisponiamoci all’accoglienza.
E lasciamoci trasportare in questo percorso iniziatico che è solo momentaneamente un percorso verso il basso.
Non sarà un caso, infatti, se il viaggio di Dante è iniziato la settimana precedente la Pasqua. E che con la Pasqua sia terminato.
Questi viaggi verso la profondità sono come bagni purificatori: ci sottraggono dalle nostre sovrastrutture, ci privano di tutto ciò che non ci serve, di ciò che credevamo di essere e non siamo mai stati, per aprirci le porte verso un cambiamento e una rinascita che altro non è se non la nascita di noi stessi. Conoscere noi stessi e vederci per ciò che siamo davvero.
È questo l’aspetto con cui ci avviamo alla conclusione.
Nascita e cambiamento, come esito di un passaggio nel mondo infero.
Vogliamo lasciarci con una riflessione. E con l’invito a considerare, per quanto possibile, anche il terribile momento collettivo che stiamo vivendo, come un’opportunità per conoscerci davvero e davvero comprendere che cosa desideriamo.
Ricordandoci che ogni discesa è solo ciò che precede la salita.
E che quel viaggio verso la profondità, altro non potrebbe essere, se non l’occasione per prendere lo slancio verso una novità, verso una nuova vita. Del resto, per spingere in avanti una freccia, non deve forse l’arciere tendere l’arco indietro? Per saltare verso l’alto non serve forse prendere la carica, flettendo le ginocchia verso il basso?
Buon viaggio a tutti,
allora.
[1] Hillman, J. (1996): Il codice dell’anima, Adelphi, Milano, 1997, pag. 64.
[2] Jung C. G.: Ricordi, Sogni, Riflessioni, 1963.
[3] Esiodo, Teogonia.
[4] Hillman, J. (1975): Il sogno e il mondo infero, Adelphi, Milano, 2003, pag. 38-39
[5] Hillman, J. (1975): Il sogno e il mondo infero, Adelphi, Milano, 2003, pag. 63-65.