Quando iniziano a scorrere i titoli di testa del film – Sorry to Bother You – ti rendi conto che Booth Riley potrebbe essere benissimo il figlio illegittimo, e un po’ strano (impossibile altrimenti visti i genitori) di mr. Thomas Pynchon e del visionario Michel Gondry. C’è di fatti quella vena scanzonata e paranoica tipica di fine anni Sessanta e un certo tipo di piacere sessual-feticistico verso pupazzi e stop motion. Ancora, c’è un attaccamento profondo alla questione sociale e politica contemporanea con una tendenza ovviamente molto vicina al problema della rivendicazione razziale, il tutto avvolto con convinzione e maestria in un bel pacchetto dai colori saturi e dalle prospettive oniriche.
Entriamo un po’ più nel dettaglio e nelle motivazioni che mi spingono a sostenere che questo sia uno dei film più importanti dell’anno.
Se si fa un piccolo studio sulla figura dell’impiegato nella produzione cinematografica, e ancora in quella letteraria, si capisce subito che non si sta affatto trattando un argomento nuovo o vergine. Siamo davanti ad una caterva di proposte e opere che nella maggior parte dei casi sono diventate tanto celebri da rendere quasi l’argomento un cliché.
Uomo giovane entra nel mondo del lavoro e trova questo ambiente del tutto privo di qualsiasi stimolo, sia esso interno o esterno, sente che la vita stringe la morsa attorno a lui e tenta la fuga; fuga che può essere suicidio, pazzia, sostanze come alcol e droghe (non necessariamente in quest’ordine). Fin qui niente di nuovo, poi all’idea dell’alienazione moderna viene aggiunta quella dell’afroamericano sbandato in una società che non lo riconosce, perso tra la polvere di una nazione che lo respinge ai margini; e qui la sensazione è la stessa, c’è la puzza del già sentito, già detto (anche molto bene, da molti altri).
Eppure, sebbene i luoghi comuni moltiplicandosi hanno l’abitudine di creare un luogo comune massimizzato, per la stessa legge per cui più per più fa più, questa volta il conto non torna. L’effetto finale è decisamente convincente e fa da leva con un risultato che non solo lascia una dolcezza amara in bocca, ma che riesce anche a divertire senza troppo disturbare.
Abbiamo davanti un Lakeith Stanfield sporco e povero, immerso fino al collo in una vita senza sbocchi, fintanto che non riesce a trovare un lavoro in un call center. Scena tipica della stanzona brulicante di sottopagati lavoratori che inseriti a forza nel loro microscopico spazio personale cercano di accedere ai piani superiori dove tutto promette di essere scintillante e remunerativo in modi che nemmeno riescono a sperare.
Il primo discrimine dal canone è, però, che l’eroe non è per nulla schiacciato dalla macchina del potere capitalista, piuttosto ne comprende il forte influsso degenerativo e si immedesima nel tipico e potenzialmente vincente pedone che ne dovrebbe far parte. Si finge, dunque, un impiegato caucasico cambiando la propria voce in una “white voice”. E con questo riesce ad intraprendere la sua scalata, da qui nuova macchina, nuovo ufficio, nuovo conto in banca, nuovo appartamento.
Ora, senza svelare troppo della trama e delle ripercussioni che il successo – ahinoi – sembra sempre avere in qualsiasi opera di fantasia (stranamente, nella realtà, ci appare molto più tollerabile e accettabile), concentriamoci un secondo sulla figura che si delinea nel film.
Perché non sono tanto le premesse, che come ho cercato di definire prima sono abbastanza standard, piuttosto una linea abbastanza nuova che un certo tipo di corrente cinematografica e televisiva sta cercando, anche con discreto successo, di far passare. E cioè che gran parte dei personaggi afroamericani dell’ultima ora non soltanto riescono ad integrarsi con successo nelle trame del reale e ad avere un ruolo affatto secondario nel dipanarsi della vicenda, ma che piuttosto riescono – contro ogni pronostico – a raggiungere posizioni e risultati invidiabili.
Che lo facciano poi a scapito dello status qu
o,
scappando da esso o integrandosi fittiziamente, questo è un escamotage interessante e cucinato a puntino capace di rendere l’idea di un tipo di narrazione che non solo ammicca allo spettatore con tono divertito, ma che riesce anche a fare della critica sociale caparbiamente contemporanea.
Il film di Riley sta in linea con la serie Atlanta di Donald Glover e ancora con Get Out di Jordan Peele, e non per ultimo con quella che è l’ennesima conferma del genio di Spike Lee, BlacKkKlansman.
Che ci fosse del marcio negli Stati Uniti non dovevano dircelo i film, che non ci fosse una giustizia sociale vera e propria, che i lavoratori sono spesso sottopagati, che le minoranze etniche sono discriminate e calpestate nel quotidiano, che anche l’arte spesso le relega a spazi e ruoli secondari; tutto questo non era necessario che ci venisse raccontato da Sorry to Bother You per saperlo.
E, invece sì, basta ed è un lavoro totalmente motivato, perché evidentemente una chiara e lucida disamina del problema, con un particolare valore anche qualitativo, è sempre necessaria al pubblico e all’arte stessa per contribuire a creare uno spaccato dei tempi moderni. Che si possano citare altri esponenti insieme a Riley, che si possa iniziare a parlare di una qualche sorta di movimento, che ci si interroghi e si rimanga piacevolmente stupiti da un bel lungometraggio è tutto ciò che si richiede e si deve richiedere ad un regista e sceneggiatore.