«tirai fuori di tasca un libro, il libro di un poeta, e gli lessi un frammento. Lui ascoltò in silenzio. Il testo parlava di Narciso e di certi boschi quasi sconfinati popolati da ermafroditi. Quando finii non fece alcun commento. Che te ne pare? gli domandai. Non so, disse, a te che te ne pare? Allora gli dissi che secondo me i poeti erano ermafroditi e potevano capirsi solo fra loro. Dissi: i poeti sono. Volevo dire: noi poeti siamo.»
ROBERTO BOLAÑO, I Detective Selvaggi
Ho messo l’impermeabile alla mia
poesia, l’ho condotta
tra gli anni, cercando di
proteggerla.
Piove, oggi come ieri,
ed io mi frappongo al vostro biasimo
carico d’applausi o
di passi accademici.
Mi privo del gusto di non avere
che amici come lettori critici.
Ciò che scrivo non è la
mia vita, ma qualcosa
che le assomiglia molto.
Le ho chiesto di potersi tenere
l’impermeabile, ma qui a scuola
non sta bene, è un posto molto chiuso.
È giallo chiaro il suo impermeabile
lo distinguo con la coda dell’occhio
mentre ora cammina qui, dentro di me.
Vorrei capire in che rapporto siamo.
Cerco di baciarla, aduno il mio forte
coraggio, mi giro, la guardo, oh sorte!
Che bella! Triste non sembri – di giallo
vestita! Vorrei essere il tuo vassallo!
Subito le corro incontro, ma cozzo
la testa contro il cemento di città.
Giuro che c’era fino a cento anni fa!
Mi chino cupo, la gente mi viene
a consolare. Mi libero del mio
malumore parlandone libero.
Mi sento meglio, ma chi con empatia
ascolta si sente peggio di prima
Mi sento confuso, mi guardo intorno.
Vedo all’angolo qualcosa di giallo;
piovono commenti, ma io corro vivo
alla caccia delle mie vere illusioni.
Vorrei tatuarmi una bussola che sia
smagnetizzata, che giri, sul polso,
sempre, che sia, sintomo
di questo mio strano stato d’animo.
Ma non si può fermare un qualcosa
che gira se non con una poesia.
La memoria per me è l’unico luogo
dove un sentimento è libero e vibra,
senza alcun arbitrio, senza riguardi.
Il sole d’ottobre, può ricordare
l’estate, anche se il mare di Venezia
non è pensato per un tuffo allegro.
Cerco comunque un’epifania ricca,
come questa città, che sia capace
di bucarmi con l’ago magnetico
e iniettarmi con forza bruta il senso
della mia vocazione poetica.
La selva oscura
Per me amare è tutto. Amando non sentivo altro. Vedevo lei e lei sola, in ogni mia mossa. Se per caso degli eventi mi avessero portato la mente altrove, al ritorno del pensiero di lei, subivo come uno scompenso immenso; una mano invisibile mi schiaffeggiava con ferocia e mi domandava come mai avessi osato di smettere di pensare all’Amore. Amare è bellissimo. Amare è soffrire. Ora che non amo più lei e sento di non potere amare altro che me stesso, vivo in preda ad attacchi di passione; mi avvampo su ogni cosa come se dovessi consumarmi in essa. Amare consuma tempo e forze. Cerco di dare degli assiomi per spiegarmi come mai per me non esistesse altro che quella passione. Ero cieco, bruciavo, ansioso: non si può sbagliare in amore. La mia vita era un piano per non farla soffrire. Ma non ci riuscivo mai. Ma non avevo mai sbagliato così tanto prima di allora. Ma l’amavo e anelavo a lei affannosamente, continuamente. Non sono ancora in grado di amare. Mi confido spesso con gli amici, mi sento diverso, incapace, frustrato di perdere tante occasioni con donne uniche. Ma non posso. Non voglio vendervi l’illusione che io sia ancora in grado di amare. Vivo egocentricamente e la mia mente riarsa cerca la poesia. Prima la mia poesia era l’Amore, era la passione. Quando eravamo felici insieme, non avrei mai e poi mai scritto. Il mio tempo era lei: i fogli giacevano inespressi nello zaino. Bianchi. Ogni mia poesia per lei, era un lamento. Non dovevo mai mostrarmi debole: ogni mio malumore lo gettavo via coll’inchiostro. Giuro che ho passato dei momenti di empatia unica, felicità grande, attimi che pagherei per rivivere. Ma ora sono ricordi chiusi, non perché fanno male. Ma sono in archivio. Ho iniziato a scrivere per me stesso, ma sento sempre il bisogno di condividere. Questo è un viaggio, che parte dal basso della mia coscienza.
TERRA BRUCIATA
C’è un momento nella vita di ogni uomo in cui tutti ci sentiamo soli.
Quando l’egoismo atavicamente si disseta nella passione e brucia tutto ciò che c’era prima.
C’è un altro momento più straniante, in cui ti accorgi che non brucia più niente: è finito l’ossigeno.
E lo cerchi, corri, corri, ma rimani sempre lì, bloccato nella sabbia.
Ti guardi intorno e c’è solo terra bruciata.
I
Maledetto sia il colpo di fulmine
e tu che me l’hai lanciato! Come
si possono schivare
le frecce veloci di
Cupido alato? Prestami il tuo scudo!
E quindi ballo balbuziente senza
scorgere riparo ai sospiri, stanco,
forse scoraggiato dal fato ricco
di sorprese sensazionali, eventi
unici, che mi ricordano sempre
quanto io sia ridicolo davanti
al mondo che verrà
all’amore giocoso,
al futuro saccente
a cui riponiamo nostra speranza.
II
La concentrazione è difficile da
mantenere. In certi
momenti, quasi impossibile. Perché
le ansie, i problemi, il cuore, per non
parlare poi del futuro, passato e
presente: esse lottano
tutti imperterriti e
tanto e troppo tonto, io divento lento!
Tuttavia, a stento tento
di trovare il timone;
devo trovare il tasto
che blocchi il resto e mi lasci intatto.
III
È tutta una questione
di punti di vista: dico da in piedi
davanti al mare.
Può sembrare che ti abbracci
oppure che ti corra addosso forte.
Quindi che fare?
Guarda e decidi. Prega,
anela, pensa, rimugina, ma dai
non rimanere,
a p p e s o
tra il rumore dell’onda mal infranta
ed il ronzio dei tuoi pensieri stanchi
di capire cosa succederà poi.
Smettila!
Fa una cosa:
tuffati e fidati.
Almeno sarà più divertente, no?
IV
A piccole gocce dense cadono
lacrime che, cadenzate, scendono
a patti con me, desiderose di
aiuto. Nei miei sogni le ali
dell’amore mi librano alto, per
colmare quel male, arrivando al mare
che sei tu, così grande,
ma così fragile, ma così decisa,
nel vedermi come la tua spiaggia
dove precipitare
in cerca d’ un abbraccio che colmi
la ribellione di solitudine,
che è il fango, si, ch’è l’amore.
V
Il tramonto del giorno
pesa come la sofferenza
di un amore. Come
le nuvole e la notte
e la pioggia. Ma
io preferisco pensarti
fino ad un’alba
che possa finalmente
tranquillizzarmi;
scorre tutto a
questo mondo,
a parte il tempo
lontano da
te.
(30 secondi)
VI
D’amor randagio devi
crederti esperto; perché
non s’addomestica per sbaglio,
ci vorrebbe un bel guinzaglio: leggero,
non d’orgoglio, ma di fiducia fatto e
comprensione e compromesso; stona
però la rima come il ritmo e versi
scontrosi girano attorno a facili
soluzioni che, limate dal tempo,
rimangono incompiute e mal espresse
e perdo molta gioia in dolore.
VII
Si inspira a cosa
la vita? Dolce e lenta e
preziosa: ma resta
un’opinione: la misteriosa scelta
del libero arbitrio
VIII
Guardo il cielo e ne resto disilluso.
Perché le nuvole grattano il cielo?
Non sarebbe più facile se il cielo
fosse sempre sereno? Spiegami poi
sterminato cielo, ma
l’improvvisa tempesta
la periodica neve
lo splendido sole
perché sciupano il mio buon umore?
Eppure, so come sei, cielo. Ma fai
anche attenzione, ti prego, a me.
Mi sento solo e sempre più titano
e turbato e stanco ma assai deciso
a non abbandonare
il mio sogno:
capirti.
N.B.
Ci sarebbero molte altre poesie, ma non sono più in mio possesso. Molte sono in post it scaduti a terra, con la loro colla ormai grigia di polvere; altre sono su fogli di appunti, nel retro di quaderni, sulle sedie universitarie crocifisse dal mio lapis; ma, pur tuttavia, la maggior parte, le rilego nel grande spazio del mio rimosso; quante notti spese a pensare a lei! È sempre poesia. Poche le ha lei, in una scatoletta bianca e rossa, nell’armadio dei vestiti appesi, nella sua camera al secondo piano, del suo paesino marchigiano. Per me quelle sono inaccessibili: non credo di poterci entrare nemmeno in sogno nella sua camera. Ma non perché lei sia lì, con un’incudine ad aspettare di potermi ghigliottinare: ormai è cosa di sua proprietà. Sono poesie scritte talmente all’inizio del mio innamoramento per lei che è come se le avesse scritte da sola – dimentico di me stesso, le vomitai su inchiostro, insieme a tanto sentimento.
Ergo, non le leggerete mai. Voi. E mi dispiace, perché erano tutte poesie allegre.
Destinatario
Il vero problema dell’iniziare a scrivere è essere coerenti. Si parte sempre da sé stessi, ma il personaggio che ne esce fuori è spaventevole. Chi parla qui? Io non agirei mai come scrivo. Ma chi scrive, di chi scrive? Ho un segreto. Un obbligo nel personaggio che è di questa storia. Nonostante non ci siano date o riferimenti, descrizioni fisiche o azioni concrete, tangibili, questa è una storia; se volessi essere un letteratucolo, lo definirei un romanzo di formazione – autofinzionale, poi? Ma non è un problema di genere letterario – che l’accademia torni a parlare di se stessa! Il mio problema è più grande, agisce in bilico come un acrobata tra l’esser me stesso e l’essere ciò che scrivo; non riesco a capire chi è, qual è la psicologia della persona che scrivo e che scrive. Ma io chi sono? Mi crea schizofrenia. La mia fantasia parte con lui, con questa parte di me a cui non so dare un nome e un’età, ma solo un passato. Il mio obbiettivo è questo: separarmi. Voglio partorire questa mia passione che è un altro me su questi fogli ed andare avanti senza di essa! Spero di arrivare all’ultima pagina che lo scrivente e lo scritto abbiano due vite parallele.
Sto confondendo le carte in tavola, sono un inchiostro molto scorretto. Il mio tentativo rimane. Voglio lasciare un’impronta di scarpa nel fango della pozzanghera.
L’acqua è torbida, lo vedo. Sono scisso, questa è la mia caratteristica. E c’è una parte di me che scrive versi in poesia che vuole la sua indipendenza. Vorrebbe crescere; a prescindere da me, dalla mia morale, dal mio passato. Mi dilania a volte vivere due realtà parallele; rimanere connesso è davvero difficile. Se la parte ribelle prendesse il sopravvento, chiederei scusa a tutti, soprattutto a mia madre. Anche a mio padre.
Basta, voglio dominarmi. Basta combattimenti tra realtà e fantasia. Schieratevi, la storia continua, chissà chi vincerà.
***
La mia storia d’amore è fuori questione. Non è un canzoniere. È finita: ne sono uscito orgogliosamente a brandelli.
Ogni consiglio che ascolto lo ritengo inutile: io ho le mie metafore per guarirmi. Dio, perché mi hai fatto così intellettualmente orgoglioso? Non capisco se ci sia un difetto in calce al mio ego! Appena lo definisco come tale, mi sento superbo nel correggerlo: doppio difetto.
Il viaggio continua con tutte le sue contraddizioni.
Una cosa che ho sempre disegnato mentre ascoltavo le lezioni a scuola è: un cuore spezzato, con le braccia larghe in cerca di un abbraccio; accogliente. Alato come un angelo, ma con un forcone da diavolo. Una Aureola Santa, sopra a due corna capresche. Questo cuore ha anche un volto, diviso dalla spezzatura: volto beato e volto malizioso. Questo disegno esiste da sempre, da prima che iniziassi ad amare! Come vorrei capire cosa significhi; mi aiuterebbe a capire molto della mia essenza. Ma ho paura. Non riesco ad affrontare questo discorso nemmeno con me stesso, da solo, con la mia musica preferita, con tutta la dose di autoanalisi che continuamente mi infliggo. Quel cuore è veramente il cuore dell’anima mia. Pulsa, io sento, tutte le sento! Sento tutte le contraddizioni che ci appartengono, sono io quel cuore. Viscere mie! Vorrei spiegarmi, ma non riesco; biasimatemi pure, sempre a testa alta guarderò ciò che mi dite.
Forse voglio tatuarmi quel cuore, ma in una parte di me che non vedrei mai allo specchio.