Di Luigi Mancuso
“Graecia capta ferum victōrem cepit et artes intulit agresti Latio”: questa celebre massima oraziana è stata usata innumerevoli volte nel corso del tempo, per sancire e simboleggiare la definitiva supremazia culturale ellenica sui rozzi e agresti romani. Tutt’ora, se noi volgiamo il nostro sguardo verso la società e la letteratura ellenica e le confrontiamo con quelle latine-romane, per impostazione culturale saremmo portati in maniera quasi istantanea a scegliere la Grecia e a simpatizzare con la grecità come non plus ultra di una civiltà superiore. Civiltà da cui i romani non avrebbero fatto altro che apprendere e imitare la filosofia, la poesia e, secondo alcuni, perfino gli dèi. Ma se noi ci fermiamo un attimo a riflettere questa visione del mondo classico risulta essere sicuramente parziale e anche faziosa.
Già in passato studiosi come Kurt Latte e Georg Wissowa avevano criticato i Quiriti definendoli un popolo privo di fantasia immaginativa, incapace di generare dei Miti pari a quelli dell’Ellade. Una città più di guerrieri che di filosofi. Anche per quanto riguarda lo sviluppo della letteratura latina essa “nasce” più tardi rispetto a quella ellenica e per di più non comincia “ufficialmente” per merito diretto del Patriziato romano, ma grazie a un liberto, Livio Andronico. Abbastanza singolare come inizio. Ovviamente con ciò non si vuole sminuire la produzione letteraria latina, ma è però importante vedere come Roma abbia avuto uno sviluppo della letteratura e della mitologia molto diverso da quello ellenico. Questi pregiudizi sulla cultura romana nascono proprio sulla volontà di dover paragonare forzosamente con la Grecia una società e una civiltà che per certi versi condivideva alcuni punti in comune con la patria della filosofia, ma per molti altri versi, ne era totalmente diversa. La costruzione del Mito in Roma antica fa parte proprio di una di queste differenze abissali. A differenza dell’uomo greco, che ha una visione molto simile a quella dell’India Vedica, cioè cosmica e favolistica, dove il Mito serve, prendiamo ad esempio la Teogonia, a narrare la nascita del mondo e della origine dal Caos e delle Età che attraversa l’uomo, come per le Opere e i Giorni di Esiodo. Questa dimensione “favolistica” non esiste nella forma mentis dei Quiriti, perché l’uomo romano vive in maniera attiva e non contemplativa la dimensione del Mito.
Il filosofo Julius Evola, in commento all’opera del Bachofen Le madri e la virilità olimpica, fa notare giustamente che per Roma “fu caratteristica proprio una sintesi di realtà e di ‘mito’; in essa il ‘mito’ passa da un piano astorico (come in genere fu il caso dell’Ellade) ad un piano concreto: si fa forza formatrice della realtà e della storia, e si palesa in gesta, avvenimenti ed anche istituzioni, le quali per tale via assumono un significato simbolico…”1. In questo passo possiamo notare quindi una grande somiglianza che unisce la concezione Omerica del divino a quella romana. Ho scritto poc’anzi che il greco non ha la dimensione statale del Mito, però nella religiosità della Grecia arcaica tramandataci da Omero, vediamo che gli Dèi non hanno genealogia, come accadrà invece con Esiodo, ma esistono immutati.
Come scrisse il celebre studioso Mario Untersteiner gli Dèi di Omero “non hanno passato e non hanno futuro: sono eterni nella loro realtà e immortali in quanto rappresentati secondo la figura umana”2. Non a caso a Roma la divinità, specie nella Roma arcaica, non veniva raffigurata mai e definita non a caso come Numen, che deriva dal verbo *nuĕre, cioè, annuire, perché gli dèi si manifestano nel cenno di consenso all’azione che il romano si appresta compiere, come il dichiarare guerra per esempio. Il romano chiede sempre aiuto agli dèi per sapere se sono concordi o meno e una volta confermato il loro assenso si agisce. Gli dèi romani si esprimono e si manifestano come forze agenti e quindi non possiedono i “vizi” e le virtù degli dèi della Grecia.
Nella storicità dei Miti di Roma comprendiamo come per il romano storia e Mito siano fusi insieme e le varie vicende della Roma arcaica, fino a risalire ancora più indietro alle vicende di Dardano, di Enea e di Evandro, sono l’espressione di diverse “saghe” o, meglio, “cicli narrativi” che hanno caratterizzato la storia di Roma e delle sue origini. Dalle origini italiche dei troiani, con la venuta di Dardano e del suo popolo sull’isola di Samotracia per poi giungere sulle coste dell’Asia Minore si ha un ciclo di apertura, per poi concludersi con la venuta di Enea in Italia e dare il via a un nuovo ciclo, che inizierà dai discendenti del principe dardanide per passare attraverso i Re di Alba longa e poi con Romolo e Remo si avrà un nuovo ciclo di apertura e di espansione prima in Italia e poi nel mondo allora conosciuto. E non si può allora non menzionare la lotta simbolica per il sacro e il diritto, incarnata da Hercules e da Romolo, contro Caco e Remo, che invece incarnano l’archetipo titanico di sovversione e di ribellione nei confronti degli dèi. Anche le guerre che Roma affronta per affermare il proprio dominio rientrano in una simbologia molto simile: nella lenta ma inesorabile espansione dell’Urbe, vengono distrutti i principali centri di civiltà spiritualmente alla sua visione del mondo. La città di Veio in particolar modo è tra queste.
Dal punto di vista della mitistoria è una battaglia tra Apollo Pitico, invocato da Fuio Camillo3, e tra Iuno Regina4. Per questa ragione, risulta limitante e materialista giudicare la grandezza della cultura romana, anche se lo stesso discorso può tranquillamente essere esteso a tutte le altre società del passato di cui ci sono arrivati pochi documenti scritti, in base a quante opere letterarie e filosofiche sono state lasciate ai posteri. La Sapienza per il Romano, come la sua cultura, non si ricerca all’interno dei libri, ma nella consapevolezza del proprio legame con le Divinità e nella ascesi guerriera delle armi, che agiscono seguendo sempre la rettitudine del ritus. Un aspetto che unisce questa saggezza “priva” di libri della cultura romana trova un suo parallelismo in quella Indiana che, pur avendo una dimensione cosmica e non statale, nella Bhagavadgītā viene detto che per il saggio che conosce il Sé i Veda, i testi sacri induisti, sono paragonabili come utilità all’acqua di uno stagno quando tutt’intorno c’è l’alluvione5. Il romano non è filosofo nella concezione greca, ma è un Saggio perché sa che tutto ciò di cui necessita si trova già nella semplicità e schiettezza del mos maiorum, nel rispetto delle leggi degli uomini che sono anche sacre ai Numi e solo attraverso l’azione rituale compiuta correttamente, eseguita con una scrupolosa e non superstiziosa pietas, può realizzarsi l’ordine e la concordia tra gli dèi e degli uomini: la Pax Deorum. Infatti: “una tale mancanza di “cultura” cela […] una forza più originaria, agente in uno stile di vita, di fronte alla quale ogni cultura di tipo cittadino presenta tratti problematici, se non pure di decadenza e di sfaldamento. È così che la prima testimonianza che in Grecia si ebbe di Roma, è quella di un ambasciatore, il quale confessa che, mentre nel Senato romano pensava di trovarsi come in un’accolta di barbari, vi si trovò invece come in un concilio di re”6.
Possiamo quindi notare come la parola cultura abbia la stessa relazione semantica con cultus, nello specifico il cultus deorum, ma anche con il verbo colere, cioè “coltivare”. Risulta quindi chiaro che la cultura ha uno stretto legame con la religio, che non deve essere intesa come re-legare frutto dell’interpretazione cristiana, quanto più come un re-legere, cioè un “raccoglimento”, perché il romano, quando si accostava agli altari degli dèi patri metteva a tacere i cattivi pensieri (favete linguis) per poi raccogliersi nella esecuzione rituale senza abbandoni di tipo mistico o sentimentale, ma nella secchezza del rito provvedeva a nutrire gli dèi.
Che cosa significa nutrire gli dèi? Ancora una volta dobbiamo fare uno sforzo ulteriore per uscire dalla mentalità moderna e dalla corrente religiosità, che è totalmente opposta a quella di un romano proprio in virtù della componente fideistica e devozionale. Per il romano la civitas, ovvero la comunità di uomini liberi e tutelati dalla legge romana, che è legge sacra, è l’insieme degli Iura e dei mores7 in questa unione di leggi e norme religiose il cittadino romano è parte attiva di un cosmo ordinato che la comunità stessa, con partecipazione e consenso, ha deciso di realizzare. In virtù del Patto che Romolo ha stipulato con i Numi, avviene la diffusione dell’ideale romano tramite le leggi e l’estensione della cittadinanza, che va meritata dimostrando di appartenere spiritualmente ai valori della romanitas realizzando quindi la civitas augescens vengono fatte accrescere nel benessere e nella concordia non solo i popoli che verranno romanizzati seguendo un processo molto lento e che richiederà secoli, ma anche gli dèi di tutte le nazioni e dei popoli che si ritroveranno tutelati dai romani e resi romani loro stessi.
Basti guardare anche l’espansione romana che avviene in maniera molto lenta e graduale rispetto a qualunque altro impero della storia. Contro una certa storiografia che vuole i romani come dei conquistatori senza scrupoli che per mere ragioni economiche hanno deciso di sottomettere il mondo alle loro spade. Si attua l’espansione senza limiti dei confini di Roma: imperium sine fine dedi, dice Giove in proposito della missione fatale di Enea, intesa come destino o Fatum voluto dagli dèi (Fas-Fatum). Ecco il nutrire gli dèi, tramite i riti la concordia e la pace e la giustizia della legge che è espressione terrena del comando di Giove Ottimo Massimo, al fine di riportare il mondo in una nuova aurea aetas e realizzare la Saturnia Tellus dei primordi. Quindi lo Ius che agisce in accordo con il Fas, crea la realtà e lo spazio romano. Questo rispetto delle due componenti del diritto romano si ha fin dai primordi con la nascita di Roma. È cosa nota, infatti, che Romolo prese gli auspici sul Palatino e ottenere il consenso da parte di Giove di dare inizio al rito di fondazione dell’Urbe e non serve ricordare quanto importanti fossero gli auspici per il console che voleva attaccare battaglia e a tutti i disastri che aveva portato invece l’aver negletto i riti.
Il romano era consapevole che il mondo materiale in cui viveva era il riflesso di un altro mondo metafisico. Questa consapevolezza del romano nei confronti del mondo viene sapientemente messa in luce da Altheim: “L’uomo romano non ha mai tentato di figurarsi il mondo come un ordine ideale, scevro da ogni accidentalità della storia e sottoposto unicamente alle leggi e alla perentorietà della ragione. Era più incline a manifestare in modo concreto ed evidente quanto la natura o l’attività umana avevano realizzato prima di lui. Avvertiva la necessità di considerare vincolanti le scelte compiute in situazioni ben precise e spendeva tutte le sue energie nella loro piena attuazione. Un ordine preesistente, una tradizione avita, dovevano sempre avere la possibilità di manifestarsi con ogni evidenza”8.
Proprio perché il romano incarna nella storia l’archetipo dell’eroe mitico, che, come un Hercules o un Arjuna in lotta contro forze malefiche del Caos per riportare l’ordine della legge, la sua finalità non può che essere quella di combattere anche nelle condizioni più disperate, ma non è la vittoria del singolo che ha valore a Roma, anzi è la vittoria della civitas e il benessere della comunità formata da uomini e dèi che deve avere la supremazia su ogni istinto egoistico. Catone il Censore nel libro IV delle Origines narra dell’eroismo del tribuno Quinto Cedicio che offre la sua vita e quella dei suoi 400 uomini per permettere la ritirata del console evitando che l’esercito di Roma venga distrutto dai Cartaginesi9. Occupata un’altura, Cedicio e i suoi uomini sono in inferiorità numerica schiacciante. Sanno benissimo che per loro non ci sono possibilità di salvezza, eppure combattono in una lotta durissima, tempestati dalle lame e dalle armi da lancio dei Punici. Alla fine, tutti gli uomini di Cedicio cadono l’uno a fianco all’altro, spalla a spalla. Sorprendentemente, Cedicio fu l’unico a sopravvivere nonostante le ferite riportate. Riuscì quindi a salvarsi e guarire per poi in molte altre occasioni dare prova del suo valore per Roma. Nella concezione apollinea della romanità e della Grecia omerica e classica, abbiamo lo splendore dell’ordine e della legge, dell’equilibrio e della misura.
Abbiamo in sostanza gli ultimi bagliori della civiltà Indoeuropea, che ordina lo spazio e la terra in base all’ordine divino degli Dèi. Abbiamo i confini sacri dell’Urbe e dell’Impero che sono ordinati e precisi, stessa precisione che ritroviamo nella costruzione di un Tempio o nel tracciato del sacro e invalicabile pomerio di Roma. Per l’uomo classico, quindi greco-romano, la sua grandezza sta nel limite. Nello spazio ordinato che va difeso fino alla morte.
[1] J.J Bachofen, Le madri e la virilità olimpica, Roma 1949, p. 95.
[2] M. Untersteiner, La fisiologia del mito, in “La nuova Italia”, Editrice, Firenze 1972, p. 111.
[3] Tito Livio, Ab Urbe condita, libri, V, 25.
[4] J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Edizioni Mediterranee, Roma 1969, p. 335, nota n. 60.
[5] Bhagavadgītā, II, 46.
[6] J. Evola, op. cit., p. 330.
[7] G. Casalino, Res Publica res populi: studi sulla tradizione giuridico-religiosa romana, EdizioniVictrix, Forlì 2004, p.81.
[8] F. Altheim, Deus Invictus: Le religioni e la fine del mondo antico, Edizioni Mediterranee, Roma 2007, p. 129.
[9] Come ben sappiamo, Catone non nomina mai gli ufficiali romani o i soldati che si sono distinti sul campo di battaglia. Il nome del valoroso tribuno ci viene tramandato da Aulo Gellio, Notti Attiche, III, 7, dove viene narrato l’episodio di Quinto Cedicio con l’aggiunta di alcuni passi tratti dalle perdute Origines di Catone, mentre Quadrigario (Annales, libro III), dice che il nome del tribuno fosse Laberio.