Dino Campana può sicuramente essere annoverato tra gli artisti italiani dimenticati del ’900. Autore di un singolo libro di poesie, intitolato Canti Orfici e pubblicato nel 1914, Dino Campana ha subito su di sé l’onta della follia e di numerosi ricoveri in manicomio, motivo per il quale venne soprannominato il “poeta pazzo”; al punto che Saba dirà che era solo un pazzo e che è stato scambiato per un vero poeta. Ma perché gettare così tanto discredito su un poeta? E cosa può insegnare a noi contemporanei la sua figura?
Noi riteniamo che Dino Campana venne reputato un pazzo perché semplicemente era un uomo libero. E dava fastidio all’ambiente culturale dell’epoca proprio perché era un uomo libero. Un uomo che non si riconosceva nei movimenti culturali tipici dell’Italia di inizio ’900, e che non si faceva problemi a criticare anche aspramente molti suoi colleghi (in primis Papini e Soffici, che pure intrattennero con lui stretti legami di collaborazione1).
Certo, questo atteggiamento poco aperto nei confronti degli altri artisti e intellettuali gli causò a sua volta numerose critiche – sia sul piano letterario, sia sul piano puramente personale –, ma fu senza dubbio un tratto distintivo del poeta che lo avrebbe caratterizzato per tutta la vita. E, per certi versi, anche oltre, dal momento che i tentativi di schedarlo, di inserirlo più o meno a forza in una delle tante etichette della critica letteraria, continuarono per tutto il secolo senza giungere tra l’altro a nessuna considerazione conclusiva.
C’è chi lo considera un simbolista decadente, chi invece un avanguardista. Molti sono stati i giudizi contrastanti che le sue poesie hanno ricevuto, e che hanno polarizzato i critici letterari. Ma, seppure sicuramente interessanti per gli studiosi della materia, queste questioni ci appassionano fino a un certo punto.
Riteniamo infatti che la bellezza della poetica di Campana risieda non nella sua catalogazione, nel suo appartenere a questo o quell’altro movimento letterario, bensì nella poesia stessa. Nel suo incedere per motivi fortemente ripetitivi e circolari, che ritornano su sé stessi come delle spirali (“Sorgenti sorgenti abbiam da ascoltare, / Sorgenti, sorgenti che sanno / Sorgenti che sanno che spiriti stanno / Che spiriti stanno a ascoltare……”); nella polivalenza semantica delle sue parole, che fungono allo stesso tempo da verbi e aggettivi (“E tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola”); nelle suggestioni sonore e musicali che i versi regalano (“una melodia che non si ode, si indovina solo”).
Una poesia che si può spiegare fino a un certo punto, perché per essere apprezzata fino in fondo deve essere sentita da chi la legge. E sta forse proprio qui la chiave per comprendere la poesia di Dino Campana: ovvero la consapevolezza che i suoi versi non possono essere compresi razionalmente, poiché trascendono la dimensione puramente sensibile dell’esistenza per giungere a una dimensione più metafisica che fisica. Perché le sue parole non vogliono dire quello che sembrano voler dire in apparenza, ma hanno un significato che si appella alla parte più istintiva e trascendente dell’essere umano: quella parte che l’uomo contemporaneo sembra aver perso quasi del tutto, ma che i nostri antenati conoscevano molto bene.
Forse proprio per questo Dino Campana è stato giudicato un pazzo. Forse perché lo era davvero, perché riusciva a vedere e a sentire ciò che ad altri era escluso. Perché aveva in sé quella parte “metafisica” dell’uomo che i suoi contemporanei avevano ormai perso, e che solo i grandi artisti riescono a ritrovare e a mantenere. Un artista che, pur dichiarandosi “l’ultimo dei Germani in Italia”, è fortemente italiano: e proprio perché si sente tradito e non capito da quella che considera la sua Patria, la terra che ama, si rivolge alla ricerca di una nuova Patria lì dove vede un ideale di forza e di purezza morale. Forza e purezza che l’Italia dell’epoca, nella sua ottica, aveva del tutto perso.
“Ora io dissi ‘die Tragödie des lezten Germanen in Italien’ mostrando di aver nel libro conservato la purezza del germano (ideale non reale) che è stata la causa della loro morte in Italia. Ma io dicevo ciò in senso imperialistico e idealistico, non naturalistico. (Cercavo idealmente una patria non avendone). Il germano preso come rappresentante del tipo morale superiore.”
Il critico letterario Mengaldo dirà infine di lui che è stato un tramonto che venne scambiato per un’alba, citando a tal proposito una frase che era stata usata in riferimento a Wagner. Ciò può anche essere vero. Noi però riteniamo che Dino Campana, a prescindere dal fatto di essere stato un’alba o un tramonto, aveva in sé i colori caldi e accesi di una poesia autentica e del tutto irripetibile.
“Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l’immobilità dei firmamenti
E i gonfi rivi che vanno piangenti
E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.”
1Anche se si resero colpevoli dello smarrimento, nel 1913, del manoscritto originario dei Canti Orfici intitolato Il più lungo giorno: cosa che costrinse Dino Campana, pare, a riscrivere a memoria l’intero libro.