Di Gian Luca Diamanti
Prendendo qualche rischio, in una società che ormai sembra rifiutare qualsiasi rischio, ma che ci conduce inesorabilmente verso il rischio supremo, sarebbe interessante chiedere ai ragazzi che manifestano per l’ambiente, di spostare una delle loro manifestazioni sotto un temporale montano, magari nella dimenticata terra alta d’Appennino, magari cercando riparo in una faggeta.
Certo i temporali sono pericolosi. Ma valgono più di mille parole e di cento slogan artificiali. “Impara dal mondo verde quale sia il tuo luogo”, vorrei leggere scritto su un cartello, su uno striscione: non solo i versi di una poesia, ma un programma di vita.
Nel bel mezzo della cancel culture, il progetto più pericoloso appare infatti oggi quello che mira alla cancellazione non solo della cultura formata nei secoli e nei millenni, ma alla rimozione della centralità dei luoghi intesi nella loro sacralità, prima ancora che nella loro fisicità. Dimenticare i propri luoghi, non appartenervi, non essere connessi con loro, non sentirne il fascino, non confrontarsi con il loro pericolo, non percepirne la grazia, non considerarli più come produttori di senso: questo appare essere il rischio finale e fatale.
Sbaglia però chi ritiene che la rimozione del senso dei luoghi e del loro immaginario dalla cultura di ognuno di noi, sia un affare recente. Per quel che riguarda l’Appennino e le aree interne, questa faccenda è iniziata un bel po’ di tempo fa. In principio, in effetti, la rimozione dell’idea dei luoghi, luoghi che in realtà hanno creato l’Italia, è avvenuta anche per necessità, per dimenticare o provare a superare il disagio di vite difficili, pericoli eccessivi, difficoltà estreme.
Tuttavia – come dicevano nelle nostre campagne – non si butta il bambino con l’acqua sporca.
Così quei luoghi – ora abbandonati, ma profondamente reali – non sono affatto diventati inutili: ci servono ancora, magari in un modo diverso e possono contribuire in maniera determinante non solo alla transizione ecologica, ma soprattutto ad una rivoluzione culturale che deve, necessariamente esserne il riferimento.
Nulla ci appartiene, ma noi apparteniamo ai luoghi, innanzitutto a quelli dove siamo vissuti più a lungo e dove hanno vissuto i nostri avi. E poi noi “appenninici”, più d’altri, veniamo dal mondo verde, da generazioni e generazioni di uomini e donne che con quel mondo hanno litigato e hanno fatto pace di continuo, di stagione in stagione. Di persone che si sono misurate, come individui e come comunità, con il mondo verde. Persone che hanno perfino considerato il mondo verde come misura, limite e orizzonte non solo della propria, ma anche delle generazioni future.
La tendenza del progresso, dello sviluppo capitalistico portato all’estremo, del materialismo illusionistico – finanziario, è stata quella di farci vivere in altri luoghi, lontani comunque dal mondo verde: le città innanzitutto, poi i grandi inurbamenti metropolitani; infine ci apprestiamo a subire “volontariamente” l’ultimo grande trasferimento di massa, andando ad abitare il luogo più distante dal mondo verde che sia mai stato immaginato: la rete, il mondo virtuale e quindi lo spettrale metaverso.
Una naturale evoluzione? Difficile pensarlo, perché comunque, anche se affondati, sprofondati, affogati nel virtuale, restiamo sempre con i piedi per terra e con gli occhi potenzialmente rivolti al cielo.
Il problema è che il nostro paesaggio, anche quello interiore, non può ridursi a uno schermo o a una finzione popolata da ologrammi. Non apparteniamo ancora del tutto ai non luoghi e non viviamo sempre con le non cose, quelle così ben descritte dal filosofo Byung Chul Han, che ci spiega come l’essere umano nella cultura attuale sia stato indotto a scansare qualsiasi tipo di legame reale, e invogliato a preferire quelli virtuali.
“Non abitiamo più la terra e il cielo, bensì Google Earth e il Cloud. Il mondo si fa sempre più inafferrabile, nuvoloso e spettrale. Abbiamo perso il contatto col reale; è necessario invece tornare a rivolgere lo sguardo alle cose concrete, modeste, quotidiane” Byung Chul Han
Occorrerebbe riannodare il filo spezzato, tornare ai luoghi riscoprendone la sacralità e governandoli con quel po’ di tecnologia che ci serve, non di più, per vivere nel nostro posto, il verde, con maggior sicurezza dei nostri antenati, con maggiore autonomia e libertà, ma con la stessa terra sotto i piedi, con la stessa essenzialità, con gli stessi cieli sopra la testa, facendo tesoro della capacità di relazionarci col cosmo che ci portiamo dentro, nella nostra tradizione (“Quante cose sa il popolo che ha dimenticato”), nel nostro patrimonio genetico.
Il futuro ci spinge a rinunciare al troppo, ma non a tutto, ci spinge a rinunciare all’eccesso di virtuale, per tornare ad essere ancorati al reale, ci spinge a riflettere sul nostro luogo, a imparare dal mondo verde quale sia il nostro luogo, ad ascoltare questo mondo con orecchie diverse, a guardarlo con gli occhi e non solo negli schermi, risvegliando tutti i nostri sensi e i nostri geni, a non scartare più l’ipotesi di nutrirci con la terra e della nostra terra.
Scopriremo allora di avere tante soluzioni diverse, desideri differenti da quelli indotti; scopriremo di saper leggere il mondo con occhi più attenti e forse anche di poterlo davvero salvare andando in un’altra direzione, che non è un salto nel buio. Semmai un salto nel verde, ma nel cuore del verde. Per questo occorre che chi contesta l’attuale sistema sperimenti l’approccio più profondo per farlo: non con lo smartprhone in mano, ma cercando costantemente il confronto con il mondo verde fuori e dentro di sé. Anche sotto un temporale, magari cercando riparo in una faggeta appenninica, nell’anima dell’Appennino.
Articolo gentilmente fornito da AppenniniWeb