Di Maria Micaela Bartolucci
«Chi parla male, pensa male» affermava Nanni Moretti nel suo film Palombella rossa e, nonostante non ne sia una fedelissima estimatrice, condivido pienamente questa affermazione, perché il linguaggio informa di sé il pensiero e lo forgia.
Il particolare status di colonia ideologica, culturale, sociale nonché politica dell’anglosfera ha portato l’Italia ad una americanizzazione per sostituzione: duemila anni di civiltà destinati a scomparire, fagocitati dalla decadenza di una società della barbarie che, come una metastasi, si è sviluppata corrompendo dall’interno, non solo il nostro paese ma il mondo intero.
Ha ragione Pier Paolo dal Monte quando afferma che è inesatto chiamare tale fenomeno totalizzante “mondializzazione”, più esatto definirlo americanizzazione.
Il linguaggio e, di conseguenza, il pensiero sono stati i primi ad essere infettati da questo morbo che, lentamente, ha infestato ogni ambito.
La società rozza, banale, semplificatrice nord americana, basata sull’assenza di passato, sull’impraticabilità del futuro e su un infinito presente, sta inesorabilmente soppiantando quell’occidente complesso che, al contrario, vantava radici profonde nel suo passato e fondava il suo futuro nell’agire presente. La tradizione cristiana ne è un’esemplificazione chiarissima.
L’argomento sarebbe molto esteso, tuttavia non lasciandoci spaventare dalla vastità, cercheremo di tracciare delle linee di discussione che ci servano da guida per successivi approfondimenti.
L’immanenza, sebbene non percepita come tale, regna sovrana e domina ogni singolo istante della nostra vita: l’uomo contemporaneo ha smesso definitivamente di aspirare al trascendente, ripiegandosi ed avviluppandosi in un perpetuo e sempre più agonizzante presente che cerca di cancellare il passato, in un continuo svilimento, e che restringe, fino a farle scomparire del tutto, le prospettive quindi, il futuro.
In questo eterno presente l’uomo aziendalizzato vive in una sorta di incanto subculturale e sociale che fa di lui un misero indebitato consumatore, pronto a legarsi, per anni, allo scopo di accaparrarsi oggetti di sempre più rapido consumo che, impropriamente, grazie ad un ingannevole metonimia, vengono definiti beni.
Tutto ciò avviene in un’irrealtà in cui nulla è ciò che sembra, un metaverso in cui ogni cosa appare senza essere. Cibo che appare tale ma non lo è, relazioni che devono apparire reali ma non lo sono, famiglie di facciata che, come tali, diventano surreali, persino il sesso, quanto di più concreto ci sia, ha dovuto sublimarsi fino a diventare virtuale.
Trionfo del nulla e dell’assenza riempito di oggetti reali ed emozioni virtuali voracemente consumati per essere rapidamente sostituiti da altri oggetti ed emozioni destinati a creare immondizia indifferenziata in costante crescita.
Questo fenomeno di sostituzione totale e distruzione delle fondamenta dell’occidente e della sua civiltà, non sarebbe stato possibile senza un impoverimento del pensiero che passa, giocoforza, per una banalizzazione e semplificazione del linguaggio.
L’essere umano non sa più ragionare perché non sa più parlare, perché ha perso, e sta continuando a perdere, quegli strumenti linguistici che, costituendone la ricchezza, sono alla base della gnoseologia, conseguentemente, della lettura del presente e della costituzione della Weltanschauung.
Il cancellamento del passato è ormai evidente, persino ai più ottusi celebratori del finto progressismo; il suo svilimento è sotto gli occhi di chiunque voglia realmente occuparsi di storia, solo gli stolti continuano ad informarsi tramite gli pseudo studi o i fantomatici documenti prodotti e disvelati, ad hoc, dai vincitori. Gli altri, per fortuna, hanno una profondità di pensiero tale che gli permette ancora di studiare, ragionare ed analizzare il passato senza ingombranti e nostalgici pregiudizi ideologici…
Questo cancellamento del passato è legato alla scomparsa, per esempio, del passato remoto che non è, grammaticalmente e linguisticamente, più preso in considerazione dalla “moderna” didattica che si concentra, di fatto solo su due tempi: passato prossimo ed imperfetto e che lo rilega a “tempo letterario”.
Se tale impoverimento linguistico è preoccupante, non lo è di meno la progressiva sostituzione del futuro che scompare inglobato nel presente: domani vado, tra una settimana faccio… uno svilimento temporale da cui traspare il conseguente autolimitarsi al presente, sia al pensiero che, soprattutto, all’azione: in assenza di futuro manca la spinta propulsiva che spinge all’azione presente. Da questo nasce la perenne domanda: A che serve? Ogni azione perde di significato se non ha una sua utilità immediata. La massa medicalizzata non solo vuole una ricetta, ma la vuole per una panacea che porti risultati immediati.
È chiaro che questo ha delle implicazioni profonde in ogni ambito, primo tra tutti quello politico, ed in questi ultimi anni ne abbiamo avuto contezza, ogni azione sembrava essere preclusa proprio a causa di questa triviale domanda di fondo.
L’imbarbarimento del linguaggio però tocca il fondo nella scomparsa dell’uso di un modo verbale fondamentale della lingua italiana: il congiuntivo.
Il modo della soggettività, quello che permette di esprimere le proprie opinioni rendendole autorevoli senza essere autoritarie, il modo che concede una possibilità ad argomentazioni apparentemente contrastanti proprio tramite le concessive, un modo, non a caso, totalmente assente nella lingua inglese. Un modo erroneamente sostituito dal condizionale, un lapsus che, oltre a suscitare orrore, ha una ricaduta “psicologica” non indifferente perché sottende una condizione che lo renda attualizzabile.
Questi sono esempi di un impoverimento linguistico che definirei interno, strutturale, a cui dobbiamo aggiungere un imbarbarimento esterno dilagante come l’ignoranza: l’uso sempre crescente di anglicismi. Chiaro sintomo di una sudditanza linguistica sempre più imperante, che testimonia del servilismo nei confronti della lingua dei vincitori, dei dominanti. Una pauperizzazione ideologica diventata una sorta di moda a buon mercato, se a questo inquietante fenomeno aggiungiamo il dilagare dei linguaggi settoriali, da quello tecnico-informatico a quello economicistico e, ultimamente, medico, la piccola galleria degli orrori linguistici è completa.
Solo per pretestuosa polemica, apriremo una breve parentesi, accennando al linguaggio giovanilistico che, guarda caso, si è fatto strada a partire dagli anni ’60, matusa, a monte, cioè ed è andato via, via americanizzandosi sempre di più per arrivare al decadimento totale del momento attuale fren, basato, boomer, respect! Di nuovo il divide et impera, questa volta linguistico, vorrebbe rispecchiare quello sociale: la volontà di creare una distanza artificiale che venga però percepita come una sostanziale differenza e fare in modo che un divario di interessi, assolutamente creato a tavolino, venga accolto come reale e cogente.
Parafrasando una nota diatriba filosofica, americanizzandoci abbiamo accolto la lingua della miseria per arrivare allo stato attuale di miseria della lingua, passando attraverso la miseria del pensiero. Un Far West subculturale che sta facendo strame delle vestigia della nostra civiltà e che sta lasciando sul suo cammino, al pari del Nulla del famoso film, solo macerie fumanti in cui greggi di individui, ridotti quasi al silenzio grazie all’insipienza in cui sono immersi, scorrazzano chiassosi ed impotenti, assorbendo, metabolizzandola immediatamente, qualsiasi immondizia venga loro propinata.
Se, come scriveva Heidegger, «l’uomo agisce come se fosse lui a forgiare e a dominare il linguaggio, mentre è il linguaggio che resta signore dell’uomo» e «il linguaggio è la casa della verità dell’essere» allora diventa chiaro quanto la regressione imposta dai vincitori ai vinti sia distruttiva, quanto profonda sia la ferita inferta al nostro pensiero e quanto sia aberrante quello a cui siamo sottoposti, obbligati ad una pauperizzazione che parte dalle scuole elementari e, disegnando un destino tragicomico, giunge fino all’università.
Essere sgrammaticati, non conoscere l’uso corretto della punteggiatura, infarcire il proprio parlato di anglicismi o tecnicismi non può essere considerato figo, guardiamo in faccia la realtà, un tale imbarbarimento non denota altro che profonda ignoranza e servilismo.
La lingua della decadenza e della barbarie intellettuale non può trionfare su quella della civiltà.
Dobbiamo tornare di nuovo al 2 gennaio 1492 ma, questa volta, la Reconquista sarà ancora più lunga e difficile, perché l’invasione è molto più profonda e radicata di quanto non fosse quella e, soprattutto non ha portato con sé nulla che valga la pena salvare.
Articolo gentilmente fornito da Frontiere, sotto il link al blog: