La nascita di una visione sul filo dell’estetica della guerra
Di: Edoardo Nasini
Un Febbraio piovoso, quello del 2014.
Il Febbraio in cui i Russi entrarono in Crimea.
Ero poco più che ragazzino, eppure allora come oggi, la mia mente si arrovellava e si perdeva negli intricati ed interessantissimi meccanismi della geopolitica.
Ricordo benissimo quei giorni, li ricordo come fossero fatti di poche ore fa.
Mio padre mi raccontava spesso quando da ragazzo, seguendo i notiziari, cominciava ad apprendere quanto accadeva nel mondo.
Gli stormi di Huey americani in Vietnam, l’autostrada della morte in Iraq durante la campagna del Golfo e la sortita di Cocciolone e Bellini, in groppa al loro ruggente Tornado, accompagnando al racconto l’iconica frase: ”Era italiano l’unico aereo a compiere la missione!”
Poi la Cecenia, Grozny che brucia, Beslan e i soldati russi in lacrime fuori dalla scuola, o ancora i fatti del teatro Dubrovka.
Posso dunque affermare di essere cresciuto con un vivo interesse nel campo.
Cominciavo pian piano anche io a farmi un’idea, unica, mia.
Cominciavo anche io a delineare quella linea, ben lontana dalla retta via che ci indicano a forza al giorno d’oggi.
Iniziavo a domandarmi se scendere in Iraq, bombardare Belgrado, schierarsi coi miliziani Ceceni, fosse stata veramente la scelta giusta.
E se ci fossimo sbagliati?
Ecco, avevo iniziato a camminare per quel viale lastricato che mi avrebbe portato dalla parte di chi, comunque vadano le cose, è il nemico.
Non si può però tornare direttamente al 2014, ma poco prima, giusto tre anni.
Precisamente al giorno in cui, sulle televisioni nazionali cominciò ad apparire l’immagine che senza alcun dubbio aprì nella mia mente quella piccola porta, ancora nascosta.
Il giorno in cui assassinarono Mu’ammar Gheddafi.
Il corpo trascinato fuori dal canale di scolo, con ancora stretta tra le mani la pistola.
Le grida di quella massa di animali assetati di sangue che banchettavano sulla carcassa di un Titano, ora così debole eppure così infinitamente superiore alla loro becera soldataglia.
In quell’esatto momento sono diventato il nemico, ho scavalcato la barricata, ho preso coscienza della situazione.
In quell’esatto momento sono diventato il cattivo.
In quell’esatto momento ho capito che non ci sarebbe più stata partita, che se il grande occidente aveva il diritto di disintegrare un paese ed un popolo, io avevo il sacrosanto dovere (per quanto un ragazzino possa avere voce in capitolo) di schierarmi col più debole.
La stessa sensazione, anche se per una situazione nella sostanza ben diversa, ha preso possesso della mia volontà quel giorno di Febbraio.
Quando per la prima volta, in televisione hanno cominciato a trasmettere le immagini delle ”Persone Gentili”, degli ”Uomini verdi” russi che, passato il confine con l’Ucraina, entravano in Crimea.
Accolti come liberatori, dopo il colpo di stato Nazional-Atlantista che alcune settimane prima aveva ribaltato Kiev.
Ecco, se vogliamo essere sinceri, la prima scossa di quel nuovo spettacolo geopolitico io l’avevo vissuta proprio in quelle settimane, gettando lo sguardo negli occhi degli uomini dell’unità Berkut della polizia antisommossa, che da decine di giorni difendevano quanto rimaneva del governo nazionale.
Seduti sulle scalinate dei palazzi rappresentativi, che si scaldavano col fuoco dei bidoni incendiati, che mangiavano un boccone tra uno scontro e l’altro, che stretti in cordoni di sicurezza coprivano civili e feriti dall’assalto delle bande di Euromaidan.
In quelle scene avevo realizzato la mia nuova teoria.
È stato semplice capire chi era il ”cattivo”, quando i soldati russi fissavano dalle cancellate i loro pari Ucraini bloccati nelle basi sul Mar Nero.
È stato ancora più semplice capire chi erano quei bravi ragazzi di Maidan, che il 2 Maggio dello stesso anno, ad Odessa, massacrarono quarantotto persone alla casa del popolo.
Per puro odio politico ed etnico.
Le fiamme che uscivano dalle vetrate del palazzo, tra le grida di aiuto e i colpi di pistola, non lasciavano alcun dubbio.
I cattivi erano coloro che non si erano piegati, e che adesso giacevano a terra, carbonizzati o massacrati come animali da macello.
I cattivi erano i filorussi, erano i comunisti, i cosacchi di etnia russa, i socialisti.
E compresi che, di nuovo, la mia barricata (anche se metaforica) era proprio quella del nemico.
Alla fiera compattezza di un popolo che lotta e non cede di un passo, baionetta in canna, l’occidente civilizzato e foraggiato dal Grande Satana rispondeva con le crocefissioni di prigionieri ad opera del Battaglione Azov, con la rappresaglia ed il terrorismo.
E ad ogni sopruso, ad ogni pesante ingiustizia, il Donbass uno e indivisibile rispondeva con piogge tonanti di razzi Grad, con avanzate disperate, con un eroico misticismo che solo in guerra viene fuori.
Spiegando lo stendardo di Lenin, intriso del sangue del proprio popolo, il Donbass stesso saprà raccogliere l’eredità di una stirpe di guerrieri e combattenti.
E nel gioco internazionale, nel braccio di ferro futile e fine a se stesso tra i nuovi due blocchi, il Donbass ha già vinto, il Donbass si è già rialzato.
Si è rialzato dopo la vittoria di Debaltsevo, dopo la seconda battaglia dell’Aeroporto di Donetsk, dopo il bagno di sangue di Ilovaisk.
Il Donbass ha vinto nelle parole del Comandante Mozgovoj: ”Non avere paura per la tua vita, abbi paura per il tuo onore.”
Lunga vita ai cattivi.