Di: Francesco Subiaco
Per molti esiste una sorta di grande medioevo che ha investito la Grecia dall’annessione al mondo romano fino ad oggi. Tale medioevo, assenza di riferimenti culturali passati, è essenzialmente immaginario. Dall’impero bizantino la cultura neogreca produce capolavori, vette, altezze insormontabile. La poesia in Grecia non si è fermata al poeta Pindaro ma ha prodotto autori immensi soprattutto nel novecento. Dal nazionalista Sikelianos, al poeta del risveglio e della resurrezione greca, già premio nobel, Odisseas Elitis. Dalla malinconia del Leopardi Greco, Kostas Karyotakis, alle forme classiche e mitiche del canone di Kavafis. Passando per il viaggio epico del secondo Ulisse, quello di Kazantzakis. Tra questi maestri c’è Ghiorgos Seferis. Premio nobel, poeta, diplomatico. Di questo autore la CROCETTI EDITORE, ha recentemente pubblicato una antologia “Le poesie”. Bisogna ringraziare ogni giorno Nicola Crocetti per la sua ttività instancabile di sciamano della poesia, che lo portano a presentare al pubblico italiano autori inediti ed immensi. È il caso di Seferis, uno scrittore molto spesso avvicinato a Montale, nonostante una vocazione molto più affine ad Eliot, con una poesia capace di sintetizzare tutte le anime della lirica neogreca. Da quella classica e distaccata, a quella simbolica innamorata del mare e delle corrispondenze segrete della natura, da quella più scarna e aspra delle liriche giovanili, alla maturità dei giornali di bordo. Mostrando una poesia di occasioni, di incontri comuni che si rivelano testimonianze assolute della condizione umana, con una lingua lontana dai purismi più vicina al greco demotico, capace però di estrema raffinatezza e naturalezza. Una poesia che si allontana dalle premesse dei poeti “laureati” che vogliono farsi testimoni di una verità indiscutibile, con la bocca impasticciata di sermoni e moralismi mal masticati, a cui Seferis predilige la grazia di perdersi nell’altrove. Nel non dare risposte, di dire solo “solo ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, ma da qui le assonanze con Montale finiscono, perché al contrario dell’autore delle Occasioni, Seferis non usa una lingua sghemba, musicale, ricca di correlativi oggettivi e di parole cacofoniche. Egli predilige la naturalezza e la raffinatezza, quindi la semplicità e la sobrietà. Non cercando mai risposte, preferendo alla poesia dei veggenti, o al vago e indefinito, la divagazione, lo smarrimento. Smarrimento che accompagna i canti giovanili e la cisterna, dove ogni giorno la vita viene meno, all’ombra delle statue, delle “fiamme di un altro mondo. Noi moriamo muoiono i nostri dei”. Mostrando come in racconto il dramma della solitudine e della incomunicabilità tra gli uomini, che vedendo tutti i giorni la disgrazia di un uomo ammettono che “ci siamo abituati a lui, non rappresenta nulla/come tutte le cose a cui ci siamo abituati/e vi parlo di lui perché non trovo/nulla a cui non siete abituati/i miei rispetti”. Capace di mostrare il dramma umano della perdita di contatto con il mondo, gli antenati e la natura grazie a Stratis Thalassinos: “non ci sono asfodeli, violette, giacinti; come parlare coi morti?/ i morti conoscono solo la lingua dei fiori/per questo tacciano/viaggiano e tacciono nel mondo dei sogni”, avvolto tra gli agapanti che lo invitano a tacere, mentre il mondo si perde e disperde. Una vita che è una grande passeggiata nel rumore, nelle apparenze, fino al momento in cui si scioglierà nel tutto come un fiume nel mare(“tua vita è ciò che hai dato e questo vuoto è il suo foglio bianco”). Seferis è stato un autore straordinario una voce chiara e piena di suggestione, come le onde del mare greco, come l’egeo che ha scritto nelle sue opere il grande corpus del “foglio bianco, capace di dire solo ciò che sei stato nel passato ciò che non sarai mai”.