Alla Sala Pegasus di Spoleto è stata proiettata la versione finale del capolavoro di Francis Ford Coppola
Io volevo una missione e, per scontare i miei peccati, me ne assegnarono una.
Cap. Willard (Martin Sheen)
Parte I
Nell’anniversario del quarantesimo anno dall’uscita del film (1979) il regista statunitense firma la versione finale (“Final cut”) di uno dei film più interessanti e controversi sulla (altrettanto controversa) guerra del Vietnam.
Il film narra del Capitano Willard – soldato ormai incapace di ritornare alla “realtà” civile dopo aver vissuto le atrocità della guerra vietnamita – a cui viene dato il compito di ritrovare e fermare, a qualsiasi costo, il pluridecorato Colonnello Kurtz (l’iconico Marlon Brando), ormai vittima della propria (lucida) pazzia e sfuggito totalmente al controllo dei capi militari dell’esercito americano.
La pellicola è quindi incentrata sul viaggio di risalita del fiume Nung (in realtà le riprese vennero effettuato sul fiume Pasangjan, nelle Filippine) da parte di Willard e dei suoi compagni di avventura fino al raggiungimento della base militare del Colonnello disertore.
E’ nel viaggio compiuto dal protagonista che risiede il corpus centrale della pellicola “apocalittica”, diretta verso l’inferno della guerra del Vietnam – attraverso la versione moderna dello Stige dantesco -, delle sue contraddizioni e della sua infamia, ormai più che manifesta anche ai non addetti ai lavori nello studio della storia del secolo scorso.
E di apocalittico c’è molto nel film di Coppola: il viaggio, suddivisibile in sette macro sezioni – sette è il numero simbolico del libro di Giovanni, l’Apocalisse – comincia con l’ordine, da parte delle autorità militari americane, dell’eliminazione di Kurtz (dopo una prima scena psichedelica di Napalm e “conflitto interiore” del protagonista sulle note di The end dei Doors). Prosegue poi con l’incontro con il colonnello Kilgore (Robert Duvall) e l’epico attacco ai vietcong con la Cavalcata delle Valchirie come sottofondo musicale, per poi giungere alla scena dello spettacolo delle conigliette di PlayBoy (assalite quasi come fossero dei combattenti comunisti in piena battaglia). Dopo il superamento del ponte a confine tra Vietnam e Cambogia – tra la “realtà” e la “fiction” (è questa una delle sezioni maggiormente oniriche del film) – si giunge all’incontro con l’avamposto “francese” (scena inedita dalla versione originale del film) fino a concludersi con l’approdo nel regno del Colonnello Kurtz, l’Anticristo biblico da combattere.
Ma la bestia da sconfiggere mostra il suo lato controverso, critico e cosciente nei confronti della guerra e del suo… orrore. L’Anticristo si trasforma in Messia e diviene un redentore, un salvatore delle anime perdute nel conflitto. Tra queste c’è anche quella del Capitano Willard, il cui dilemma oramai diviene cosa fare del Colonnello Kurtz, arresosi al proprio destino (e soprattutto compiuta la propria missione).
Così il viaggio nella guerra si risolve in una catarsi che, non purifica il guerriero, non lo libera (e non vi riuscirà mai) perché la fanghiglia dell’orrore – del vero orrore di bambini mutilati, di massacri insensati, di violenze ingiustificate e di una guerra voluta sin dall’inizio con intenti imperialisti – non potrà mai essere pulita. Ma la catarsi rende cosciente il guerriero, lo rende consapevole della propria condizione e gli dà coscienza del suo essere un assassino in mano a quelle vere “bestie”, invisibili, padrone del suo destino.
Un viaggio che insegna che l’Apolcalisse è adesso (Apocalips Now) e una volta che si è imbattuti in essa è impossibile sfuggirle.
Parte II
Alla conclusione del film ho notato tra il pubblico il segretario nazionale del P.C. Marco Rizzo, a Spoleto in occasione della campagna elettorale per le regionali del 27 ottobre. Sorseggiando una birra fresca ho dunque discusso con lui del film e sul cinema in generale.
Di seguito riporto la breve intervista.
Apocalypse Now è uno dei suoi riferimenti cinematografici. Quali sono i suoi altri modelli?
Apocalypse Now è un’opera totale (non a caso ci ritroviamo a rivederlo a distanza di quarant’anni dalla sua uscita), un grande film di denuncia sulla guerra e soprattutto contro l’imperialismo. E come altre opere totali – Il Padrino, Blade Runner, C’era una volta in America ed anche gli italiani Novecento o I Compagni di Monicelli – non è solamente bello: questo è un film che ti resta dentro e mostra un senso finale di compiutezza. Non è inoltre un caso che queste opere siano interpretate da grandi attori, che in qualche modo riempiono il film stessi (De Niro, Marlon Brando o Depardieu).
Questi film che lei ha citato sono comunque prodotti da grandi major (i grandi studi di produzione cinematografica) che, una volta presentato le pellicole, le rimpinzano di premi nei festival che molto spesso finanziano. Non è un po’ scorretto?
Questo è vero ma alla fine nell’arte si crea un sorta di equilibrio. I grandi film si riconoscono e il cinema che conta è quello che alla fine resta. Un altro problema sta nel fatto che i prodotti che vengono propinati alle masse, soprattutto attraverso la TV, sono di una scandalosa bassezza culturale. Il problema è dunque l’intrattenimento fine a sé stesso, che non eleva in alcun modo culturalmente lo spettatore ma lo relega ad una posizione di fruitore, di consumatore. Dopo una giornata pesante di lavoro – anche se questo “lavoro” c’è sempre di meno – è comprensibile il bisogno dello spettacolo leggero; e questo tipo di spettacolo, ai giorni nostri, è un prodotto di scarsissimo valore intellettuale. Al contrario, in passato, esisteva anche un intrattenimento costruttivo, mi viene in mente ad esempio la bellissima trasmissione Rai L’altra domenica di Renzo Arbore oppure Non è mai troppo tardi con il maestro Manzi.
Il cinema non è intrattenimento. Quanto è importante quindi il contenuto della pellicola? Mi viene in mente il cinema postmoderno – Tarantino oppure i fratelli Coen – che spesso cura maggiormente la forma filmica rispetto ai contenuti: il cinema è solo contenuto oppure conta anche la forma?
Io amo Tarantino – in particolare Pulp Fiction e Inglorius Basterds – e credo che nel grande cinema sia fondamentale anche la forma, purché non sfoci nel manierismo. Il cinema è comunque come la letteratura: è allegoria del mondo. Ed il principale tra gli obiettivi che si pone è quello di far pensare, di far riflettere lo spettatore.