Di Marco Piccinelli
Tutti conoscono la celebre canzone Come potete giudicar dei Nomadi, resa ancor più famosa dal particolare timbro vocale di Augusto Daolio:
«ma se vi fermaste a guardar con noi a parlar v’accorgereste certo che non abbiamo fatto male mai».
Poche parole ma dense di significato in una canzone che si traduceva davvero in ribellione contro lo status quo:
«quando per strada noi passiam/voi vi voltate per guardar/vivete pure se vi va/ma non dovreste giudicar/ci vuole poco ad immaginar/quello che state per pensar».
Per chi fosse amante delle cose vintage, a questo link c’è l’esibizione dei Nomadi al 5° Cantagiro di Fiuggi: https://www.youtube.com/watch?v=rHVv81jIxRA
Lo
scollamento fra la generazione precedente a quella che stava suonando e
cantando questa canzone era pressocché evidente. Potremmo
anche mettere da parte la sociologia e le analisi sull’Italia degli anni ’60 –
la canzone è stata pubblicata nel 1966 – dal momento che è già evidente il
messaggio che traspare dai versi: i capelloni passano per la strada,
pantaloni a zampa d’elefante, magliette magari sdrucite, visioni politiche e
sociali del tutto opposte alla morale dei loro padri, la gente più anziana li vede
per strada e giudicano i loro costumi facendo illazioni su moralità, sessualità
e quant’altro.
Non essendo un testimone diretto di quegli anni (infausta classe ’92) mi limito
ad interpretare l’insofferenza che traspare manifestamente dalla canzone. Insofferenza
ma, insieme, presa di coscienza di una nuova morale che stava sviluppandosi
in quegli anni, giusta o sbagliata che fosse, nelle cosiddette giovani
generazioni.
Guardare l’Italia degli anni ’60 con agli occhiali le lenti del 2019 è un rischio che è bene non correre, tuttavia molte persone – giornalisti, intellettuali ma anche persone comuni che parlottano di fronte ad un bancone del bar – all’indomani della conclusione della 69esima edizione di Sanremo, hanno avuto modo di commentare i personaggi decisamente fuori dal coro apparsi sul palco paragonandoli a movimenti musicali di rottura del passato (punk su tutti).
Uno fra tutti: Achille Lauro.
Tralascio volutamente disquisizioni su Mahmood perché la reazione nella dilaniata opinione pubblica italiana (qualora ne esistesse ancora una) è stata duplice ma entrambe mi hanno provocato una violenta orticaria musicale, intellettuale, sociale, politica: i primi, afferenti alla sfera della sinistra radical-chic, parteggiano aprioristicamente per l’italo-egiziano affermando, in modo molto semplicistico e bambinesco è bravo, bene che abbia vinto anche se è chiaramente una bugia. I secondi, facendo parte della destra liberal-ma-anche-un-po’-salviniana-ognitantotendoilbraccio, inveiscono aprioristicamente perché è egiziano e, anzi, parteggiano per Ultimo per ripicca nazional-nazionalista. Anche questa, beninteso, reazione puramente fanciullesca.
Ma torniamo a noi: Achille Lauro. Rolls Royce.
Giornalisti, intellettuali, scrittori, dunque una parte consistente dell’intelighenzia italiana, ha iniziato a fare paragoni tra Achille Lauro, trappisti (non i frati per nostra sfortuna) e sciagure musicali affini con il movimento musicale mondiale a cavallo tra gli anni ’60-’70.
Questa somiglianza si sostanzierebbe non tanto nella musica quanto con la volontà di ribellione al costume tradizionale della canzone italiana, semmai ancora ne esistesse una dato che il cantautorato come lo ha conosciuto il Belpaese è scomparso da tempo.
La realtà è che la cultura capitalistica (o, se volete, il feticismo delle merci) diffusa massmediaticamente, di cui la canzone di Lauro de Marinis ne è stracolma, è un sintomo di quello che è questa fintissima ribellione moderna allo status quo:
«Vestito bene Via del Corso […] No non c’è niente da capire/Ferrari bianco si Miami Vice»
passando oltre, ovviamente, al discutibile gusto di un Ferrari bianco.
La moderna “ribellione” si gioca tutta sui tratti propri di un’esclusione aprioristica del soggetto che vorrebbe lo stravolgimento: De Marinis, è vestito bene, in contrasto con il corpo tatuato; canta probabilmente senza sapere quali note stia producendo, eppure è sul palco di Sanremo.
Tutto questo per dire che, spesso, ci si trova di fronte a delle ribellioni ben controllate, che nulla hanno a che vedere con uno stravolgimento dello status quo: quella di Lauro sembra essere inserita in questo solco. Così come tutto il “movimento” della trap in Italia: l’estremizzazione del rap ostentando tutto quello che si fa in chiave criminal friendly.
Una trappola. Bella e buona.
In conclusione: si definisce la trap una «subcultura giovanile» che si «oppone alla tendenza culturale dominante»: una subcultura che, di fatto, ammette quella dominante del capitale e della monetizzazione di qualsiasi tipo di valore, sia esso umano, ambientale, musicale, materiale. E questo vale per ogni altra autodefinita subcultura: i centri sociali, ad esempio, definitisi subcultura, abbiamo visto la fine molto ben integrata al sistema che hanno fatto. Ben lungi dal disordine nel sistema che avrebbero voluto provocare, oggi esponenti di spicco di alcuni centri sociali si ritrovano ben acclimatati nelle direzioni di partiti tutt’altro che di sinistra (rivoluzionari, qualsiasi cosa voglia dire per costoro, manco a parlarne).
La trap sta tutta dentro questa dialettica dei nostri tempi che non distrugge e non trasforma nulla (scusaci Lavoisier) ma che peggiora una tendenza culturale che risente di un clima sociale ben poco edificante, estremizzando concetti e comportamenti che rimangono ben dentro il solco del consumo.