Il film In guerra in programma in questi giorni alla Sala Pegasus è la storia della lotta degli operai di una fabbrica francese di proprietà di una multinazionale che si battono con tutte le loro forze per difendere il loro posto di lavoro contro i piani della dirigenza aziendale di chiudere lo stabilimento, a dispetto di risultati economici apparentemente buoni.
La trama non cela sorprese: come in tanti casi ben noti, i lavoratori usciranno sconfitti da questo conflitto, rappresentato magistralmente dal regista Stéphane Brizé attraverso l’artificio stilistico del documentario, che dà ancora più realismo a un tema fin troppo attuale anche nella nostra città: quello del mondo del lavoro schiacciato dalle leggi del mercato globalizzato.
La vicenda attraversa le fasi classiche di tante vertenze industriali: dall’impotenza delle istituzioni, relegate a un ruolo quasi puramente notarile, alle tattiche dilatorie della dirigenza aziendale, mirate a stancare i lavoratori per poi dividerli con la promessa di un più corposo incentivo al licenziamento, fino alle divisioni fra le varie sigle sindacali che, nel furore della polemica, si lasciano andare a un’autoreferenziale conta dei voti ottenuti per stabilire chi pesa di più.
Il film ci porta attraverso la finzione del reportage al centro di un conflitto carico di tensione, dove il contenuto politico si fa evidente fin dall’inizio. È nel primo incontro fra sindacati e azienda che emergono i due messaggi chiave: da un lato, i rappresentanti dei sindacati, capeggiati da Laurent Amedeo (protagonista interpretato da un grandissimo Vincent Lindon), accusano i dirigenti aziendali di non aver atteso i cinque anni pattuiti per ricontrattare le già durissime condizioni che i lavoratori avevano accettato due anni prima per allontanare la prospettiva della chiusura. Dall’altro, uno dei dirigenti dello stabilimento dice ai sindacalisti che la loro lotta non ha senso, perché “siamo tutti sulla stessa barca”: sono le leggi del mercato, non i dirigenti dell’azienda le vere responsabili della chiusura
Da una parte, quindi, la lotta sindacale, in mancanza di una prospettiva politica di lungo respiro, si riduce a difesa di diritti che, di trattativa in trattativa, vengono progressivamente erosi attraverso accordi al ribasso che servono solo a ritardare la vertenza successiva. Dall’altra, invece, i manager tentano di stemperare il conflitto, se non di aggirarlo tout court, attraverso un’abiura delle responsabilità in cui non sono delle persone vere a prendere spudorate decisioni per soddisfare la fame insaziabile di profitto di azionisti e dirigenti in carne ed ossa, ma sono le fantomatiche forze che guidano i mercati che porteranno inesorabilmente alla sconfitta qualsiasi rivendicazione che tenti di arginare gli effetti della globalizzazione, per cui conviene accettare gli incentivi, in un tragico e miope carpe diem in cui i lavoratori non sono che pedine o, peggio ancora, numeri su fogli di lavoro.
In ultima analisi, il pessimismo che pervade il film, mentre la trama si dipana verso la tragica sconfitta di Laurent e dei suoi compagni, ci dice che per una vera uscita dall’ansia del bisogno e della precarietà, per affermare in modo definitivo non il diritto all’elemosina delle buonuscite, ma il diritto a un lavoro stabile e a una vita dignitosa, non basta la lotta sindacale, per quanto dura e determinata essa possa essere, ma è necessario invece cambiare il sistema i cui meccanismi la mera trattativa economica lascia sostanzialmente intatti. La “morte delle ideologie”, ci dice In guerra, lungi dal risolvere i conflitti, ha reso i lavoratori e le classi svantaggiate in generale più indifesi e soli.
Un bellissimo film che consigliamo vivamente di andare a vedere sia per l’intrinseca qualità cinematografica che per gli spunti di riflessione che offre, in particolare in una città come Spoleto, dove vertenze industriali della stessa natura di quelle narrate da Brizé sono all’ordine del giorno.