La controcultura distopica nell’Animazione Nipponica
La controcultura distopica nell’Animazione Nipponica

La controcultura distopica nell’Animazione Nipponica

Dallo  Zengakuren a Mishima: i giovani nipponici contro il migliore dei mondi possibili

Di Andrea Giumetti

Apriamo con questo articolo una nuova rubrica culturale per Aurora – sorella di quella dedicata al cinema action distopico degli anni ’90 – che si propone di esplorare quelle opere di animazione nipponica che, per l’appunto, portano con sé una profonda carica di critica sociale, più o meno mascherata dietro il velo della distopia e della fantascienza (laddove, nel caso dei film action, la maschera era quella dei “cazzotti sudati”).

Scrivendo i primi appunti per gli articoli, mi sono ben presto reso conto che non si poteva trattare di opere narrative come Mobile Suit Gundam, Ghost in the Shell oppure di Jin Roh – Uomini e lupi senza un riferimento costante alla molto poco conosciuta storia politica del Giappone contemporaneo. Con l’evidente eccezione del bombardamento atomico, infatti, ben pochi in Occidente hanno qualche nozione di quella che è stata la storia del Paese del Sol Levante dal 1945 fino al 2000, e in effetti spesso si tratta di avvenimenti che gli stessi giapponesi tendono a non tramandare troppo apertamente. Ecco, non si può capire la grande stagione del manga e dell’animazione nipponica distopica se non si capisce bene la storia dei movimenti popolari che animarono il Giappone in quegli anni, espressione dello spirito di un popolo che tentava di dare un forte sussulto contro un modello sociale che, nel suo unire la naturale propensione alla disciplina collettivista dei giapponesi con un modello economico politico importato dagli Stati Uniti, avrebbe nel tempo partorito una chimera mostruosa. Oggi, che il Giappone è in pieno inverno demografico, in una crisi economica che si trascina da 20 anni e si trova passivamente sulla linea del fronte nella strategia di contingentamento della Repubblica Popolare Cinese, tutto sommato possiamo concordare con loro.

Il governo nazionalista e imperialista giapponese, quello presieduto da Hideaki Tojo, aveva preso parte alla Seconda Guerra Mondiale come parte dell’Asse, nel tentativo di realizzare un disegno geopolitico noto come La Grande Sfera di Prosperità Asiatica. Al di là del nome altisonante, si trattava di nulla di più che la costruzione di una cintura di regimi collaborazionisti da far gravitare attorno al Giappone, e il vero motivo scatenante del progetto era, sostanzialmente, mettere al sicuro quelle risorse naturali di cui le isole nipponiche erano sprovviste, e che l’esistenza del colonialismo “bianco” rendeva difficile reperire sul mercato con forniture affidabili.

Il disegno imperialista della giunta nipponica imperiale, come è noto, si infranse contro la resistenza disperata del fronte di liberazione cinese e contro la potenza industriale degli Stati Uniti nel Pacifico, finendo definitivamente annichilato al momento del bombardamento atomico su Hiroshima e Nagasaki. Gli USA, che avevano ormai identificato nell’URSS la potenza rivale in un disegno di dominio geopolitico globale, e che dal tempo della loro spedizione in siberia nel 1918-1919 avevano colto l’importanza strategica del Giappone in ottica di un intervento su suolo russo, furono decisamente più “pignoli” nel controllare le isole del Sol Levante di quanto invece si dimostrarono nel gestire i residui del Fascismo e del Nazional Socialismo in Europa. Non per ultimo, questo anche per il fatto che gli USA, all’epoca uno stato che era retto su principi di separazione razziale, avevano generalmente un opinione nei confronti dei “gialli” ancora più bassa di quella che si aveva per i neri, e che destava anche meno scalpore quando si traduceva in politica estera: il presidente Wilson, ad esempio, aveva impostato buona parte del suo mandato a cercare di tamponare la crescita dell’influenza giapponese in Cina, terrorizzato dalle conseguenze di una possibile occidentalizzazione di un paese che, già all’epoca, era il più popoloso al mondo.

Dopo la firma della  resa il 2 settembre del 1945, il Giappone venne infatti posto sotto l’amministrazione militare americana, guidata dall’ammiraglio Douglas McArthur, e si fece rapidamente piazza pulita di tutti i capi del precedente regime, facendo particolare attenzione a proteggere alcuni comandanti e scienziati militari chiave (tra cui il caso più eclatante fu proteggere i membri dell’Unità 731, il reparto nipponico specializzato nella ricerca batteriologica), e al tempo stesso a stroncare l’élite politica del Paese, nel corso di un grande processo svoltosi a Tokyo. Un quadro assolutamente interessante rispetto alle dinamiche del processo di Tokyo, specialmente in chiave comparativa rispetto a Norimberga, lo si può avere attraverso il volume La via della pace, ad opera del reverendo Shinsho Hanayama, confessore spirituale per i processati.

Ad ogni buon conto, la priorità degli USA era tenere sotto controllo la popolazione nipponica, fornendo un grande quantitativo di aiuti, proibendo i simboli del precedente regime e spingendo verso la democratizzazione del Giappone, avendo però sempre particolare attenzione nel ricordare ai vinti chi era il padrone. Democrazia, nell’accezione americana, ovviamente voleva dire rimuovere gli aspetti più tradizionali della cultura nipponica, tagliare fuori da qualsiasi legittimazione politica i comunisti, e smantellare le strutture di controllo e protezionismo economico (in un primo momento, si voleva anche ridurre la capacità industriale del paese, poi si cambiò idea). Gli eccessi, in particolare i crimini di natura sessuale, perpetrati dagli occupanti furono sistematicamente censurati, per cui è difficile trarre un bilancio efficace del comportamento delle truppe di occupazione americana rispetto alla popolazione, ma in questo senso è emblematico che i legislatori del Giappone, paese notoriamente non a favore della prostituzione, decidesse di fare un’esplicita eccezione per quelle donne che si prostituivano con le truppe statunitensi.

Nelle difficoltà dell’occupazione, dove la prima legittima preoccupazione di milioni di giapponesi era non morire di fame, le passioni politiche passarono in secondo piano, sia perché si sapeva che tutto sommato il conducente era intenzionato a restare al comando con qualsiasi mezzo, sia perché evidentemente pesava l’immenso sforzo psicologico di una guerra abominevole e colossale, che per di più era finita in un’umiliante sconfitta.

Tuttavia, non tutti si rassegnarono al nuovo stato di cose. A farsi carico della lotta politica per il futuro del Giappone furono infatti i giovani, una cosa tutt’altro che scontata in un paese confuciano. Gli studenti nipponici, che sotto la nuova amministrazione avevano visto una profonda riforma americanizzante del sistema educativo, al cui centro stava un’impennata dei costi, si organizzarono infatti attorno ai movimenti studenteschi comunisti, fondando un’organizzazione indipendente sindacale nota come Zengakuren (un acronimo che sta a significare grossomodo “Federazione Pan-Nipponica delle associazioni di autogestione studentesca”). La Zengakuren, fondata il 18 settembre del 1948, si trovò ben presto sulla linea del fuoco, in quanto il 28 aprile del 1952, a seguito dell’entrata in vigore del trattato di San Francisco, venne a cessare il regime di occupazione americano militare sul Giappone. La dominazione diretta militare era sostituita con un’alleanza militare non troppo dissimile da quella che gli USA istituirono con i partners europei della NATO, sebbene il Giappone, esattamente come l’Italia, avesse degli obblighi restrittivi aggiuntivi.

La fine dell’occupazione segnò il grande rilancio del Paese, ma naturalmente la vicinanza con i paesi comunisti fece sì che a presenza militare americana restasse costante e tutt’altro che trascurabile. Umiliato e obbligato a lavarsi via secoli di cultura guerriera e ferocemente nazionalista – elemento idealizzato dalla rinuncia ad un esercito regolare (sebbene la JSDF – Japan Self-Defence Force – abbia un potenziale operativo tutt’altro che trascurabile) – nondimeno, dopo appena dieci anni, si chiedeva al Giappone di mettersi sulla linea del fronte in un conflitto in cui non gli era permesso di partecipare.

Il movimento Zengakuren, come tutti i movimenti studenteschi di sinistra, finì per spaccarsi sotto il peso delle varie correnti, ma nondimeno riuscì a compattarsi nella lotta nel momento in cui c’era da protestare contro la sottomissione nipponica rispetto al Great Design americano: per la guerra di Corea nel 1953, per la siglatura del trattato di sicurezza bilaterale (Anpo Treaty) nel 1960, per il supporto giapponese alla seconda fase della Guerra del Vietnam nel 1964, per la definizione del Paese quale principale base logistica per portaerei e sottomarini nucleari nel 1968 e tanti altri.

Gli anni ’60 furono un decennio di proteste giovanili piuttosto veementi in tutto il mondo, ma quelle giapponesi, aperte con la siglatura dell’Anpo Treaty, degenerarono rapidamente in una vera e propria guerriglia urbana tra la polizia e i manifestanti. La passività delle istituzioni nipponiche contro queste decisioni, la consapevolezza della sempre maggiore penetrazione della cultura dell’egemone, e la progressiva involuzione della società verso il capitalismo anglosassone liberale erano elementi che colpivano potentemente i giovani giapponesi. Il disprezzo verso questo stato di cose toccò il suo culmine nel 1968, e riuscì, per un breve momento, a unire le due anime estreme del movimento studentesco. Visioni del mondo quasi completamente opposte si toccarono nel loro rifiuto dell’americanismo e della mercantilizzazione della società.

Il climax fu probabilmente quando, il 13 maggio del 1969, l’anima della destra nazionalista giapponese, Yukio Mishima, partecipò a un dibattito organizzato dal comitato studentesco di sinistra della Toudai. L’altissimo livello intellettuale portato dai dibattenti è emblematico della potenza in essere dei movimenti di protesta, che si rivelarono così imponenti da spingere l’amministrazione USA ad allentare in parte la sua presa sulle isole nipponiche: in particolare, nel 1969 venne annunciata la restituzione, entro il 1972, alla piena amministrazione giapponese tutte le isole dell’arcipelago che ancora erano sotto controllo americano. Se la grande stagione delle proteste fu aperta dall’esempio degli studenti comunisti contro il costo dell’educazione, la sua chiusura ideale fu invece a opera proprio di Mishima. È probabile che il suicidio rituale fosse anche determinato dalla presa di coscienza che la nuova integrità territoriale del Giappone avrebbe placato gli animi del grande pubblico, affievolendo il sentimento di lotta, e dunque facilitando il trionfo del perbenismo borghese.

L’impronta profonda nella cultura manga.

I ragazzi dell’Istituto Furinkan stavano per conquistare tutto il Giappone, ma poi l’arrivo della Seconda Guerra Mondiale li fermò”.

Complimenti a chiunque abbia riconosciuto la citazione. Si tratta di un’affermazione fatta dall’anziano venditore Toramasa Kobayakawa all’interno del manga Ranma ½. Il personaggio è piuttosto ridicolo e spesso afferma che la partecipazione dell’istituto sia stata cruciale in vari momenti della storia umana, ma la conquista del Giappone, interrotta dalla Seconda Guerra Mondiale, ritorna più volte. Siamo sicuri che l’autrice del manga, nata nel 1957, non stesse citando episodi che aveva vissuto da bambina, o di cui le avevano parlato i suoi maestri; forse che non è stata la Seconda Guerra Mondiale a fermarli, ma piuttosto i suoi vincitori?

Non ho modo di esserne sicuro, ma tendo a crederlo, e se uno Shonen, la cui trama parla delle avventure scolastiche di un ragazzo maledetto che cambia sesso quando viene bagnato con l’acqua fredda, si può facilmente immaginare quanto grande sia stato l’impatto psicologico della protesta sul mondo dell’arte, e più in generale sulla cultura pop, nipponica. Questo è tanto più vero se consideriamo come alcuni mangaka e registi giapponesi autori delle più sconvolgenti opere di genere distopico siano nati negli anni ’50, e in alcuni casi abbiano avuto esperienze dirette di militanza nei movimenti studenteschi.

Il più famoso tra questi è Mamoru Oshii (Patlabor, Jin Roh – Uomini e lupi, regista dei lungometraggi originali di Ghost in The Shell), la cui taglia artistica è stata dichiaratamente ispirata dalle rivolte degli anni ’60, come è per altro facilmente osservabile dal fatto che alcune scene, di fatto, riportano proprio avvenimenti di quel periodo, seppur in un contesto distopico. Le lunghe onde dell’esperienza delle rivolte nipponiche sono per altro riscontrabili anche in alcuni aspetti di trama che sono comuni, o comunque molto simili, in tutte le opere distopiche e cyberpunk giapponesi, e che generalmente non si trovano nelle controparti anglosassoni.

Innanzitutto, generalmente il ruolo delle mega corporation e del governo è diametralmente opposto. Nelle produzioni di animazione nipponica il governo coesiste con i grandi conglomerati, e spesso è in diretta opposizione, arrivando a commissionare omicidi e complotti nel nome della sicurezza nazionale, oppure emana direttamente esso stesso delle mega corporation, come nel caso della Zionic per il Principato di Zeon in Gundam. Per la scuola occidentale, invece, la situazione è al contrario, in quanto le mega corporation (che per altro, di solito, evolvono acquistando le caratteristiche dei vecchi Zaibatsu giapponesi) finiscono sempre per esautorare il governo, diventando il vero potere che regola gli Stati.

Nel cyberpunk anglosassone, l’estetica della cultura nipponica e coreana – sull’onda della superiorità tecnologica nel campo del digitale che i due paesi detenevano negli anni ’90/2000 – diviene la moda predominante; in quella nato dalla penna degli autori giapponesi, la cultura pop resta fortemente nipponica, segno di una naturale resistenza culturale alle penetrazioni estere, ma l’influenza è incarnata da un egemone lontano che ha plasmato qualche aspetto intimamente connesso con il potere. Questo, che rappresenta spesso un parallelo con la natura ambigua della JSDF non in grado di operare fuori dal territorio giapponese, ma nondimeno armata al pari di un vero e proprio esercito, è ad esempio particolarmente evidente in Jin Roh.

La distopia del racconto, che vede l’Asse aver vinto la Seconda Guerra Mondiale ma essere comunque incardinato nella sfera di un egemone straniero – in questo caso il III Reich –, mostra infatti le unità speciali anti-insurrezione del governo calzate con elmetti che ricalcano gli Stahlhelm tedeschi, ed equipaggiate con mitragliatrici tedesche MG 42. Nel capolavoro di Shirow Masamune, Ghost in The Shell, il Giappone è rimasto fuori dalla Terza Guerra Mondiale, e grazie a questo rappresenta la prima economia al mondo. Nell’opera gli Stati Uniti, prima separati in tre realtà, poi unificati sotto l’Impero Americano, nondimeno mantengono un fortissimo legame con alcune frange di burocrati governativi nipponici, che sono generalmente ben lieti di scambiare sottobanco favori e influenze con la superpotenza militare d’oltreoceano. E naturalmente, non si può non notare come l’uniforme del colonnello Shikishima in Akira, un personaggio che rappresenta solo in qualche misura un antagonista vero e proprio, ma senza dubbio incarna il lato oppressivo della conservazione dello status quo, ricorda sospettosamente il taglio di quella dei marines americani.

Insomma, quelli riportati non sono che alcuni esempi di un topos di cultura forte che ha incarnato alcuni dei capolavori dell’animazione nipponica, dando il via a una stagione artisticamente densissima e significativa direttamente discendente dalle passioni politiche e d’orgoglio che avevano animato i giovani giapponesi dopo la terribile, per loro, fine della Seconda Guerra Mondiale. Oggi noi sappiamo che di questo spirito è rimasto ben poco: la passività  rispetto alla politica del grande pubblico, quella che denunciavano sia gli studenti della Zengakuren sia Mishima, si è da tempo evoluta in una terribile stagnazione. Nemmeno l’incidente nucleare di Fukushima, in cui si è rischiato che l’intera area della megalopoli Tokyo-Kyoto-Osaka venisse invasa da una nube radioattiva, è riuscito a smuovere in maniera significativa le coscienze di un popolo che si sta, demograficamente e politicamente, estinguendo da solo.

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