Di Andrea Giumetti
“La neve, il vento e i gruppi di stelle nella notte.
Il mio cuore mi chiama verso le distanze immani.
Finché saprò come camminare,
finché sarò in grado di guardare,
finché sarò in grado di respirare, andrò avanti.”
Questo è un estratto della famosa canzone sovietica composta da Aleksandra Pachmutova dedicata alla gioventù infaticabile e composta nel 1958 come titolo di testa della colonna sonora per l’adattamento cinematografico di “On the other side” di Victor Kane. Nella loro concezione originaria, la melodia andava a collocarsi in un racconto ambientato nella Siberia, al tempo della Guerra Civile Russa, e narrato dal punto di vista di giovani, ardenti quanto scellerati, soldati bolscevichi che viaggiavano in treno verso il remoto Est. Tuttavia, la musica ebbe un successo incredibile, decisamente superiore a quello del film, motivato dal fatto che le parole del testo, una vera e propria poesia che in alcuni passi sembra quasi rappresentare una sfida rivolta allo stesso lettore, hanno la quasi sovrannaturale capacità di parlare all’anima profonda che dorme nel petto di qualsiasi uomo sotto la coperta della modernità borghese.
Il desiderio di avventura, ma ancora di più quello di dimostrare agli altri e a sé stessi di essere in grado di resistere alle sfide della sopravvivenza, spingendosi avanti ed esplorando l’ignoto. Questa è l’essenza profonda di quello che comunemente si definisce “Il Richiamo della Frontiera”, un qualcosa che, per esperienza storica, è particolarmente forte nella cultura di alcuni stati americani e nei russi, poiché si tratta di realtà che sperimentarono queste esplorazioni in periodi relativamente tardi. Ecco, dunque, che alla sete di conoscenza di popoli, piante, ambienti e paesaggi lontani, che spesso erano portatori di una forma di saggezza primordiale dimenticata dalla società moderna, si univa la fuga dalla formalità e dagli artifici della vita di città, alla ricerca di una verità che si può trovare solo al di fuori di queste.
Per la realtà Russa, Vladimir Arsen’ev fu uno dei primi pionieri di questa moderna esplorazione, (che in URSS continuò fino agli anni ’70 del ‘900), e i diari delle sue spedizioni fecero sognare i misteriosi ed inesplorati spazi dell’Est a migliaia di persone in tutto il mondo, e porre i suoi stessi interrogativi esistenziali ad altrettante. Non a caso, Akira Kurosawa realizzò, nel 1975, l’adattamento cinematografico di quella che è forse l’opera più significativa di Arsen’ev: Dersu Uzala. Il film risultante fu quello che più di tutti divise i critici del regista nipponico, e altrimenti non poteva essere per un film che abdicava la potentissima estetica di Kurosawa a fronte di una poetica profonda e malinconica, in cui la cinepresa è quasi intimidita dalla profondità della natura ancestrale.
Attraverso la Taiga, edito in Italia da Aspis, è un opera meno conosciuta dell’esploratore russo, ma nondimeno è particolarmente significativa. Questo poiché ne è l’ultima, testamento ideale dell’autore di fronte ad un mondo che la modernità e il conformismo sovietico rischiano di far scomparire. Il libro ripercorre la spedizione del 1927 che, partendo dall’Isola di Sakhalin, risalì i fiumi dell’Amur Siberiano ed esplorò le sconfinate foreste che separano la Russia dalla Cina, un viaggio segnato in particolare dal contatto con le popolazioni di etnia Orocia semi nomadi, che abitavano la zona al tempo dei fatti.
Oltre ad una dettagliatissima descrizione della fauna e della flora incontrate, la cultura sciamanica degli Oroci è quella che ha maggior spazio nel libro. Senza alcuna traccia di suprematismo occidentalista, ma anzi con il rispetto che è necessario tributare ad una cultura figlia di una saggezza maturata in millenni di sopravvivenza in uno degli ambienti più estremi del pianeta, Arsen’ev si immerge nella mitologia e nelle credenze degli Oroci, evocando la magia primordiale dei racconti che vengono scambiati innanzi al fuoco da campo da uomini che non hanno età. Ancora di più, nel corso delle esplorazioni nelle foreste siberiane, l’autore comincia a sperimentare in prima persona lo spaventoso fascino di un mondo in cui l’occhio umano, per forza di cose, non riesce a decriptare tutto quello che i sensi registrano, e che si popola di ombre da inseguire e conquistare.
Tuttavia, il momento forse più significativo, è il racconto di una terribile notte in cui un tifone spazza le rive del fiume Tormansun: Arsen’ev è chiuso nel suo rifugio, e non può che contemplare l’inutilità degli sforzi umani a fronte della superpotenza delle forze elementali della natura. La riflessione, sviluppata in pochissime parole, nasconde una chiave simbolica potentissima, se ragioniamo su come invece il Marxismo, specialmente nella declinazione sovietica, si proponeva di vincere e sottomettere la natura alla forza sociale del proletariato. E dopo che l’orgoglio positivista è stato distrutto, nondimeno subentra il coraggio e l’umanità: non appena la tempesta si placa, nel cuore della notte e in una foresta dove colossali alberi si spezzano con boati fragorosi e crollano al suolo, esce per assicurarsi rispetto al fato degli abitanti della riva del fiume. Questi sono stati travolti dalle acque in piena, e la maggior parte sparirà nel nulla. Per i sopravvissuti, nonostante la scarsità delle risorse a disposizione della spedizione, invece ci sarà un pasto caldo e conforto, e poi la partecipazione di tutti (seppur come silenziosi spettatori da parte degli Europei) al rituale sciamanico volto a placare gli spiriti, ed onorare i defunti della tragedia. Un profondo e ancestrale trionfo dell’umanità sull’aritmetica e sul nulla della mediocrità trionfalistica borghese.