Neve di primavera: la sottile fragilità dell’animo umano
Neve di primavera: la sottile fragilità dell’animo umano

Neve di primavera: la sottile fragilità dell’animo umano

Di Lorenzo A. Angelaccio

Che cos’è la neve di primavera, così sottile che si scioglie nel momento stesso in cui tocca terra, se non il simbolo della fragilità umana? Questa l’immagine che suggerisce il titolo del romanzo di Yukio Mishima, primo capitolo della cosiddetta tetralogia del “Mare della fertilità”: i quattro romanzi conclusivi dello scrittore giapponese, l’ultimo dei quali ultimato il giorno stesso in cui ha commesso il seppuku.

Neve di primavera ha l’impianto di un romanzo storico, ambientato nel 1912, anno scelto non a caso. Si tratta, infatti, della morte dell’imperatore Meiji, periodo del Giappone che lo ha visto mutare profondamente volto, aprendosi al mondo occidentale e ai suoi costumi. Occidentalizzazione che, con l’avvento dell’era Taishō, è destinata ad accentuarsi sempre di più, verso la quale Mishima esprime un disprezzo non troppo velato. Numerosi i riferimenti alle abitazioni e agli abiti in stile occidentale sempre più diffusi, ai costumi inglesi e a un modo di pensare lontano da quello degli antenati, dei samurai che ancora vivevano sotto gli shōgun: incarnazione, secondo Mishima, del Giappone più autentico e “spirituale”.

Il romanzo racconta una vicenda intrisa di decadentismo e di estetismo. Kiyoaki è un ragazzo bellissimo e insoddisfatto, cresciuto secondo una raffinatissima educazione aristocratica, e ha un difetto capitale: come un moderno Narciso, disprezza chi prova amore per lui. Per questo motivo, ha un rapporto decisamente conflittuale e instabile con Satoko, ragazza di un anno più grande di lui. I due sono cresciuti insieme e Satoko gli dimostra un certo affetto, al punto da rifiutare costantemente ogni promessa di matrimonio. Tuttavia, Kiyoaki la tratta in modo sprezzante e irriguardoso, alternando momenti di tenerezza ad altri di vere e proprie crisi isteriche, finché Satoko non si decide ad accettare una proposta di matrimonio niente di meno che dal principe Tōin.

Questo evento fa scattare un corto circuito in Kiyoaki, evidenziandone la perversione, l’egoismo e la “tara” mentale. Nel momento in cui Satoko si allontana concretamente da lui, Kiyoaki capisce in realtà di amarla e fa di tutto per incontrarla di nascosto e iniziare una relazione clandestina con lei. Con tutte le conseguenze che questo può comportare.

Impossibile non evidenziare, alla luce di questo evento, l’estremo fastidio che un personaggio come Kiyoaki è in grado di suscitare. Repulsione dettata dalla sua debolezza, dalla sua indolenza e dalla sua completa mancanza di riguardo nei confronti del prossimo, al punto che la lettura di Neve di primavera risulta difficoltosa per buona parte della vicenda. Tuttavia, pur non biasimandolo mai apertamente, risulta evidente il perché Mishima abbia scelto un personaggio di questo tipo: simbolo di un Giappone deprivato del suo spirito autentico, snaturato nei suoi valori fondanti, così da indulgere in un nichilismo in cui l’unico valore possibile è il culto narcisistico di sé stesso.

“Kiyoaki, che non amava le faccende militari, detestava la scuola per lo spirito virile e spartano che la pervadeva”

Mishima sembra avere un tono paternalistico nei suoi confronti, come se questo personaggio fosse una versione di sé stesso ormai ripudiata, ma verso cui si continua a provare comunque un senso di tenerezza. Non mancano momenti, infatti, in cui si arriva a provare una certa empatia nei suoi confronti (come per esempio nel finale), ma sono di più i momenti, invece, in cui la decadenza, la vigliaccheria e la mollezza di Kiyoaki prendono il sopravvento.

“Ci sono persone che si dedicano alla coltivazione dei fiori solo per poterne strappare i petali”

Da citare, inoltre, un altro leitmotiv ricorrente nel romanzo: la guerra russo-giapponese del 1904-05. Un conflitto spesso considerato minore, a cui nei libri di storia si dedica poco spazio, ma che nell’ambito di questa vicenda assume un ruolo centrale. Rappresenta, infatti, l’ultimo singulto di un Giappone forte e valoroso, vittorioso sull’immenso impero zarista; conflitto di cui, però, nel 1912 non resta altro che racconti ormai vecchi e grandi dipinti a olio che Kiyoaki ammira con un misto di ammirazione e di paura. Anche il nonno di Kiyoaki, già scomparso da molti anni, rappresenta egli stesso un dipinto a olio, un monumento da venerare, ma il cui spirito ormai si è perso già a partire da suo figlio, il padre di Kiyoaki. Il parallelo con i Buddenbrook di Thomas Mann e la descrizione di una famiglia in decadenza è inevitabile, a prescindere dalle intenzioni dell’autore. Così come è inevitabile la feroce critica al Giappone che effettua Mishima: non solo al Giappone del 1912, ma anche e soprattutto al Giappone dei suoi tempi, alla Patria che aveva ormai perso lo spirito di cui Mishima voleva farsi portavoce.

Nelle pagine di Neve di primavera è impossibile non percepire un chiaro sentore di morte, che aleggia dall’inizio, dal cadavere del cane trovato nella cascata in giardino, fino al tragico finale. Morte che per Mishima era una vera e propria ossessione, e che rappresenta il sacrificio supremo, la dimostrazione che è inutile attaccarsi alla vita se questa ha ormai perso la sua stessa essenza.

“Perché i tempi sono degenerati fino a questo punto? Perché la gioventù, l’ambizione e la semplicità sono decadute e il mondo è diventato così biasimevole? Fino a quando continuerà quest’era vile e spregevole? Non sarà davvero appena iniziata? Gli uomini pensano solo al denaro e alle donne, e hanno dimenticato la via della virilità. Ritornerà mai un tempo in cui si faccia un uso buono e diffuso dell’energia della gioventù di una volta?”