Una patria in salita. Dèi e meraviglie in Appennino (Rudis Edizioni, 2024)
Una patria in salita. Dèi e meraviglie in Appennino (Rudis Edizioni, 2024)

Una patria in salita. Dèi e meraviglie in Appennino (Rudis Edizioni, 2024)

Di Beatrice Harrach

L’Appennino, la dorsale che scuote con possenza la nostra terra, che dà ombra alla pianura, acqua alle fonti, da cui nascono i semi che sono germogliati, come sparsi da mano divina, sulla terra d’Italia.

Il volume di Gian Luca Diamanti, prezioso diario di esperienze, offre una guida attraverso i sentieri meno conosciuti dell’austero massiccio, portando tra le pagine d’un libro le brezze gentili, il profumo di bosco e terra di transumanza, la luce obliqua che benedice il viandante. Non si tratta di una rassegna tecnica per escursionisti, piuttosto di un canto di pastore, il cui ritmo è quello dello stupore, che sa pizzicare e percuotere nel profondo l’anima che non va, troppo stancamente, nei boschi per fuggire una routine sfiancante, per cui la gita è incasellata in uno schedario come un colloquio di lavoro, come un taglio di capelli dal quel parrucchiere che sforbicia i volti noti del delirio televisivo, come l’ultima tendenza frettolosamente liquidata dal pollice in un dimenticatoio. Per questo motivo parlarne da un punto di vista estremamente tecnico sarebbe penalizzante: è un libro che inneggia al viaggio, all’avventura sui sentieri delle proprie memorie e delle proprie speranze, del passato e del futuro, del singolo e della comunità. È un libro che apre una fenditura intima, tra battito e respiro.

Gigante dell'Appennino

Si tratta, a dover descrivere, d’un bestiario: quante creature abitano l’Appennino? Tra i passi dei fauni, delle antiche madri, delle ninfe giovani e dei tremendi padri che dispensano fertilità e furore, possiamo spingere anche i nostri, oggi? Certamente, questo ci suggerisce il libro; ma bisogna recuperare qualcosa. Una riflessione, allora, m’è tornata con urgenza, sfogliando le prime pagine; una riflessione che mi accompagna con una vaga inquietudine da tempo, circa la consapevolezza di non provare alcun genere di terrore in un bosco, in una selva, su una cima disseccata.

Perché? Facile, estremamente facile, rispondersi con una docilità benigna, dal retrogusto vile: son figlio, io, della natura; son figlio della libertà, sono fratello del bosco. Eppure tutto questo non è vero: è invece un sintomo di pessima salute spirituale, perché nella pelle irsuta del monte si deve ridestare l’allerta, la schiena deve essere percorsa da tremiti, ogni passo e ogni foglia che cade devono essere la preconizzazione d’una epifania. Si tratta d’una pace, è vero, da conquistare tuttavia nel panico, in quel terrifico totalizzante che ci pone davanti a quei limiti, impossibili da superare – o da rispettare – se non sono evidenti.

Una patria in salita ha già avuto una prima lezione per me: come ridestare quello stupore estatico che avverto sopitamente, che mi ha scosso solamente tra i castagni della Barbagia o su un rivolo sinistro della Tuscia? Cercando, forse, di riordinare in equilibrio quelle tensioni che si agitano selvatiche, sotto la dura legge della montagna. Nessuno può sostenere si tratti d’un percorso facile, e difatti questo libro rischia di mettere in discussione la bolsaggine dell’escursionista che sceglie percorsi difficilissimi, itinerari improbabili ai quattro capi del mondo, ma che consuma l’esperienza come un simulacro pallido e non percorso da vita; sarà invece una preziosa fonte di ispirazione per chi trova, anche nello sbocciare feroce del croco nel pieno autunno, lo spunto per un’avventura, per la delizia del viaggio.

Infatti, questo libro ha curiosamente risvegliato, inizialmente, non le diverse escursioni fatte nelle terre d’Appennino, ma quel vagare quieto per sentieri minori delle alte sorelle Alpi. Non si tratta di percorsi di vetta, ma piuttosto di sentieri petrosi che si muovono serpeggiando tra abeti e ciclamini, e collegano la parte alta del paese a quella bassa, carezzando lateralmente l’abitato, al cospetto del baratro dove scorre il fiume. Il libro ci riporta alle sensazione d’esserci, che subiamo, spesso, tremendamente confusa lontano da quell’intrico labirintico di monte. Ci riporta ai sentieri degli Appennini, percorsi, forse, sulle tracce di Enotro, quelle tetriche vette che sembrano pulsare contro il cielo, con volontà giovane e grave. Ci riporta ai cunicoli del Soratte e persino alle forre che solleticavo da bambina, fingendomi cerbiatto.

Leggendo, spingendo il dito alla riga inferiore e poi tornando a due passi più in alto, si ritrovano tutti i passi di un unico cammino, quello personale – certo – quello che si compone d’albe umide tra fratelli di legno, e quello d’una stirpe che fa premonire nelle vette la promessa di ciò che si sarebbe manifestato a valle. Se si pensa alla grandezza d’un monumento, non si guarda alla pietra che resta sbilenca, ma al braccio che ve l’ha posta, ed il libro di Diamanti ricorda, come una madre paziente, chi diede forza alle braccia che hanno innalzato la nostra storia, dagli stendardi di Roma alle cattedrali maestose, dagli orridi abitati dai monaci alle piazze signorili. Quella volontà giunge dalla montagna, senza retorica: la si può sentire.

Appennino

L’Appennino non è forse, già nella sua conformazione, la prima volontà d’Italia? non rappresenta lui quella spinta furente che ha divaricato le acque, facendo dell’abisso una vetta, trainando terre fertili nella sua ascesa che strappava vita all’oscurità acquea? Ecco perché, come riporta Diamanti, sull’Appennino si sente il mare, anche laddove è lontanissimo ed impercettibile. Perché ogni monte è un fondale non appagato, che s’è vestito di luce, di vita, di forza, poi di nuda roccia contro il cielo. È una sfida, o una preghiera: è un grembo che ospita il volto mutante della natura, che deve fluire nel tempo per rimanere fedele all’Eterno, che esiste di per sé, senza bisogno che nessuno lo veda, ma che offre al viandante che s’è messo in cammino di fare esperienza totale.

“Lo sguardo che ha esplorato il fondo dell’Abisso e s’è risollevato a scoprire le nuove stelle. Sopra il mutamento e l’annientamento la natura scorrevole ci offre l’immagine radiosa della creatura futura.”

Più che l’amore, Gabriele d’Annunzio.

Così, appollaiati su una vetta, si fa esperienza di fondale e d’abisso ma di presso alla nenia siderale, quella musica lieve che fa da canto alla creatura futura, al gemito dell’uomo che fatica contro lo sfacelo, alla fierezza di sapersi soli. Non abbiamo una Patria, no davvero: e persino i brandelli di quella che ci rimane sono frutto d’una costruzione che non tiene affatto conto di quella pax deorum che i nostri padri d’Appennino sapevano esistere, o di quell’ordine divino che portò San Francesco a riformare con ferma dolcezza, che celava tra le parole della Sibilla una verità immutabile. Servirebbe, forse, questo sembra anche auspicare il libro, che vi sia una rinnovata coscienza della propria identità e del proprio dovere, non solo in senso positivo, ma quanto mai metastorico: il libro, infatti, è anche testimonianza di terre dimenticate, di villaggi e paesi, di tratturi inselvatichiti, di religione di popolo e mistica cristallina, di superstizione e folgore, insomma, di un mondo che scompare anche tra gli abitanti d’Appennino.

Bisognerebbe ripensare a un futuro possibile non solo nei grandi conglomerati urbani, e che dall’Appennino, come diceva il Vate, scenda un’aquila giovinetta, che getti il suo più fiero grido nei piani sacri di Roma, a ridestare una coscienza sopita. Non di meno, una Patria esiste: e allora, anche se orfani di un senso patrio, viziato dal mito della rivoluzione, non possiamo che riscoprire il senso d’una Patria che nasce “sotto i piedi”, come diceva de Charette, che ospita le tombe dei nostri morti, le culle dei nuovi venuti, in cui si corteggia la primavera e il sangue si perpetua, che è un cammino che conduce verso l’alto, più in alto delle vette, ma attraverso di esse. Allora, è necessaria la salita: questo grida il libro di Gian Luca Diamanti, aprendo un varco interiore da proseguire nei sentieri – alcuni aspri, alcuni scoscesi, altri dolci e carezzevoli – d’un Appennino che riconduce tra le proprie esperienze in vista d’un cammino da percorrere, dove la fatica si fa estatica commozione e lo zoccolo duro del fauno – un passato che percuote la terra – incontra il fianco morbido della ninfa, in un abbraccio che è fecondo, è luce, vita, Futuro, verso il parto della creatura che sboccia dai fiori montani.