Di Maria Micaela Bartolucci (Frontiere)
Non è tempo di sconsiderata “inclusione”, né di stolti gregariati, quello che ci apprestiamo a vivere non potrà che essere un momento, peraltro molto lungo, di condivisione di idee, tra chi ha una visione del mondo peculiare; una condivisione che non può permettersi il lusso, per essere credibile, di ammettere inutili rigurgiti nostalgici né parossistici, quanto deleteri, pregiudizi ideologici ed il cui linguaggio esprima significanti veri e non feticismi. Non si tratta di inopinati matrimoni, ma di prolifica collaborazione al di là delle scelte che ciascuno può fare, è il riconoscere l’altro come portatore sano di Weltanschauung.
Se esaminiamo, con il dovuto distacco emotivo, gli avvenimenti degli ultimi tempi, alcune considerazioni sono d’obbligo.
Innanzitutto è bene aver chiaro che, dopo la dissoluzione delle piazze “pandemiche” e dei dibattiti che le hanno accompagnate, c’è un crescente disinteresse verso ogni forma di discussione, escluso quello intorno a fattoidi o alle starlette del web. Un ben misero crogiolo di pochezza intellettuale in cui si tengono immersi quei pochi, sopravvissuti al profondo reflusso, che ancora sono disposti a mobilitarsi. Il fine è quello di tenerli chiusi in recinti inutili affinché si stanchino e perdano fiducia, chi lo fa è solo un altro guardiano dei cancelli che è usato per favorire il disimpegno e disinnescare un’eventuale reazione di fronte ad assalti liberalisti che diventano sempre più stringenti e deleteri. Queste azioni sono esiziali per la residua dissidenza e vengono commesse o per ignoranza o, peggio, per calcolo.
Un altro dato di fatto incontrovertibile è che nessuna forma aggregativa, nata durante il periodo “pandemico”, è sopravvissuta compiendo un passo avanti che le permettesse di passare da espressione di singole istanze prepolitiche al più vasto ambito teoretico del Politico, questa è la ragione che le rende, fondamentalmente, inutili. Questi aggregati non hanno prodotto alcuna costruzione teorica, nessuna prassi politica degna di questo nome ma, soprattutto, non hanno fatto emergere nessuna direzione prospettica che permetta di comprenderne il fine, al di là di facili slogan o prese di posizione sulla scorta dei fattoidi o delle vicende momentanee del presente. Molti di coloro che, per un attimo, si erano occupati di “pandemia” ora si sono ritirati, di nuovo, sulle avvizzite analisi, già superate dai fatti, dell’antieuropeismo coniugato all’economicismo. Non si esce da questa involuzione ed il dibattito non può che diventare asfittico e bloccato nell’incapacità di comprendere la reale posta in gioco, trascendendo dal misero ripiegamento sui soli argomenti ormai noti, lezioncine che, con tutta evidenza, ognuno è in grado di ripetere, a memoria, da oltre dieci anni, questioni ormai risibili e talmente fritte e rifritte da risultare non solo tediose ma finanche nauseanti.
Se la sostanza è, di fatto, assente, proprio perché ampiamente dibattuta, ciò che rende certe dissertazioni ancora più patetiche, e davvero fa rabbrividire di sdegno, è il linguaggio iconicamente espresso che sembra essere stato preso da un vetusto arsenale che appare come una sorta di crasi tra quello in voga negli anni ’70 e il libro Cuore. La totalità di queste pompose analisi viene presentata infarcita da un rifiorire di parole il cui significante è ormai assolutamente non in attinenza con il significato: “massa”, “proletariato”, “imperialismo”, a cui vanno aggiunti tutti i bei termini impregnati di economicismo, anche marxista, quali, per esempio, “nazionalizzazioni” e “stato”, altri significanti, ormai, esclusivamente astratti, ridotti a feticci, non pertinenti alla realtà dell’amministrazione liberalista ma ad un empireo, immateriale ed immaginario. A questo salto spazio-temporale linguistico, forse per non essere totalmente fuori dal mondo proiettato dal pensiero dominante, si aggiungono variegate, quanto insensate, formulazioni come: “cybercapitalismo” un neologismo privo di qualsivoglia significato, “neoliberalismo” e “ordoliberismo” che, se storicamente hanno un significato ben preciso, usati casualmente, quali sinonimi di liberalismo più “cattivo”, rappresentano un errore che sarebbe opportuno evitare di commettere.
Fare chiarezza e chiamare le cose con il loro nome è il principio base per poterne discutere seriamente e, soprattutto, comprendersi.
Costruire una concreta forma di dissidenza non può prescindere dalla capacità di possedere una chiara visione del mondo e di dominare il linguaggio, ma vi sono altri pericoli, sempre in agguato, da evitare.
La superficialità è certamente uno dei rischi in cui si può incorrere in fase elaborativa: creare contenuti miseri, solo per essere facilmente intellegibili, risponde esclusivamente alla dinamica social del “mi piace” ma non contribuisce, assolutamente, alla costituzione di una visione e di una analisi. A cosa conducono queste forme saprofite di elaborazione? Ad un moltiplicarsi di ragionamenti, sempre identici a se stessi, ripetuti ad libitum, involuti e non argomentanti, incapaci, di conseguenza, di formulare una adeguata esegesi del momento e quindi, come logico risultato, di fornire una valida forma di teoria e prassi.
Il cambiamento fondamentale si ottiene unendo diversi livelli di presa di coscienza:
- abbandonare le istanze monotematiche per considerarle parte del più profondo campo di indagine del politico,
- distinguere, poi, tale campo sia dall’amministrazione che dal partitico, avendo ben chiaro che si tratta di tre concetti assolutamente diversi,
- fornirsi di strumenti cognitivi adeguati che prescindano da quelli vetusti del novecento, fatti salvi alcuni concetti fondanti,
- sorvegliare e controllare il linguaggio così da essere certi che il significante esprima l’adeguato significato contestualizzato al presente,
- intraprendere un cammino di condivisione che superi le arbitrarie distanze create ad hoc e le eventuali barriere preconcette che impediscono la collaborazione,
- allontanare il narcisismo imperante, e la volontà di apparire, privilegiando, al contrario, la peculiarità dell’elaborazione rispetto alla “popolarità”.
L’ambito del “Politico” non è lo sfogo da social, e uno non vale uno.
La buona volontà e, contemporaneamente, la voglia di custodire, che si oppongono a quella di distruggere, devono essere il motore di una nuova modalità, di azione e condivisione, in cui i contenuti prevalgano sul contenitore perché solo così si può uscire dalla palude in cui è finito il pensiero, legato a singoli lacciuli ma incapace di esprimere il tutto, o peggio, schiavo delle storture coloniali imposte dal vincitore che lo vorrebbero legato a sé dal ricatto dell’appartenenza.
Rinnegare il liberalismo vuol dire non avere alcun legame con esso, altrimenti è collaborazionismo ed i collaborazionisti vanno emarginati, lasciati soli nei loro deliri di onnipotenza che altro non sono se non miseri latrati da cani incatenati, al soldo, non solo metaforico, del padrone. Costoro non combatteranno mai per liberare la Terra di mezzo, perché lasceranno che venga percepita come già perduta, essendo, di fatto, alleati di Mordor e, quindi, controllati dall’Occhio di Sauron.
L’esercito di Gondor, chiaramente, non può avere nessuna complicità con essi, che andranno abbandonati al loro misero destino di cani da guardia, e dovrà trovare i propri combattenti saggiando il terreno con cautela, ma senza dannosi pregiudizi. Qualsiasi uomo saggio può essere indotto a valutare erroneamente un percorso. È successo ed accadrà di nuovo, quel che conta è l’essenza, se c’è…
Tuttavia, essendo il cammino estremamente lungo, ci si può permettere di essere minimamente elitari e non accontentarsi delle accozzaglie pur che sia. La qualità, non la quantità, deve prevalere. Sarà un lavoro certosino, da amanuensi, non certo quella sorta di ammucchiata selvaggia che tanto è stata in voga durante il periodo pandemico e che è tanto amata dal movimentismo.
Questa presa di coscienza è quella che dovrà guidare le azioni di quanti vorranno impegnarsi per preservare il lavoro che fin qui è stato fatto, proteggendolo dalla barbarie e da un uso banalizzante, e proseguire il cammino, quasi da tracciare, su un terreno pressoché vergine.
Ora, più che mai, c’è bisogno di monaci guerrieri, non di sciantose.