Di Alessandro Soldà
L’UOMO TECNICAMENTE ACCELERATO
Esser-sé ed esser-ci sono i punti cardinali del paradigma Cristiano o Moderno che dir si voglia: il recepire dell’essere-consapevole (e quindi esser-sé) e dell’essere presente (cioè esser-ci) è un modello che di certo, pur dato come teologicamente eterno, non ha mancato di essere oggetto di riflessioni e di rivisitazioni alla luce anche di influenze culturali altre per risolvere il mistero della perfezionabilità dell’essere umano. Il motivo è tangibile: non è più l’Uomo come semplice ente carnale che agisce nel mondo che gli è dato sottomano né un’anima rinchiusa dentro una prigione, per ricordarci di Platone, bensì un’emanazione di qualcosa di altro, di diverso, un essere che vive e agisce nella realtà fattuale dove, però, gli interessi e gli effetti non sono delimitati ad un’ora e ad un luogo determinati bensì ad una totalità. In questo frangente è plausibile pensare che le antropologie e le psicologie che hanno preceduto l’avvento del Cristianesimo siano state parziali ma in un certo senso anche profetiche rispetto all’universale riflesso nelle parole dei vangeli e dei Padri della Chiesa così come viene presentato, in apertura alla sua opera, da Giannozzo Manetti, grande uomo di lettere vissuto nel pieno del Rinascimento italiano:
Dal momento che desideriamo esaminare con attenzione la perfetta conformazione della natura umana, vediamo un attimo cosa hanno pensato su quest’argomento i due più grandi ingegni tra i filosofi e gli oratori, in modo tale da comprendere quale sia stato in tale ricerca l’apporto di uomini importanti ed eccellenti, che in parte hanno fatto affidamento sulle proprie doti naturali e in parte hanno ricevuto un’illuminazione dall’alto. Dunque provvederemo a riportare e presentare qui esclusivamente i passi pertinenti di Cicerone e Lattanzio […]. Cicerone, infatti, sostenendo, contro Epicuro, che l’uomo è stato creato da un Dio immortale, ha parlato in tal modo nel secondo libro su La natura degli dèi […]10.
La sua trattazione de homine non si ferma, di certo, alla descrizione asettica ma sfrutta anzi gli autori antichi per tirare le somme di quell’essere magnificente che è l’Uomo in virtù non solo della complessità del suo corpo o della sua anima ma evidenziando come proprio il limite corporale e le possibilità altre dell’anima, dimorante e non prigioniera della carne, siano effettivamente le caratteristiche peculiari che contraddistinguono l’essere umano rispetto agli altri animali ed enti del creato. Con uno sguardo, di certo, più accondiscendente verso l’anima, la vera e ancor più reale nostra identità. Se si volesse individuare, in sintesi, un trattato che possa parlare (beninteso con uno sguardo positivo) in maniera esaustiva dell’antropologia cristiana, e quindi moderna, potrebbe essere interessante riprendere in mano il trattato di Manetti ed il motivo è presto detto:
A buon diritto non possiamo avere dubbi sul fatto che l’uomo sia stato formato in maniera meravigliosa da Dio Onnipotente […] Sappiamo con certezza che ciò [cioè l’unione della carne e dello spirito] non avrebbe potuto essere realizzato se non da Dio stesso, soprattutto perché vediamo che quelle componenti sono in grandissimo conflitto tra loro. [..] Infatti [i teologi antichi e moderni] hanno raccontato che Dio, una volta terminato il mondo, ha voluto che fossero creati esseri di specie diverse e di aspetto dissimile. Per questo sono stati creati a due a due, cioè a coppie di entrambi i sessi, in modo che le loro differenti proli potessero popolare la terra […]. Parimenti, dopo aver disposto ogni cosa secondo una straordinaria divisione, decise di preparare per sé un regno divino e volle procreare un numero quasi infinito di anime, alle quali fece il dono dell’immortalità. Poi si costruì un simulacro dotato di sensi e di intelligenza, cioè a sua immagine, della quale non vi era alcunché di più perfetto: plasmò l’uomo dal fango […]. Ma se ammettiamo che anticamente la giusta disposizione delle membra era fondamentale per la bellezza di ogni opera d’arte, nonostante la grande eccellenza degli artisti garantisse molte lodi, cosa diremmo noi a proposito della creazione dell’uomo? non dovremmo forse affermare che essa è stata creata in maniera perfetta, meravigliosa e divina sia per quanto riguarda le fattezze esterne dei corpi sia per quanto concerne le qualità che […] sono contenute all’interno […] delle anime11?
In sintesi, Manetti si fa portavoce se non ultimo baluardo, in pieno Umanesimo, dell’ontologia antropologica inaugurata secoli prima con la rivoluzione cristiana; è l’ultimo araldo dell’Homo Sum.
Non è stata scritta la parola “ultimo” a caso. Dopo di lui, infatti, ha inizio l’elaborazione del paradigma attuale e che è in fase di concretizzazione; a dare adito, anzi ad accendere la miccia esplosiva del nuovo modello è – almeno questa è la nostra provocazione – Pico della Mirandola, quando suggerisce all’inizio della sua De Hominis Dignitate che:
[Dio] accolse l’uomo come opera di natura indefinita e postolo nel cuore del mondo così gli parlò: “non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. […] Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto […]”12.
Ora, certamente Pico non intendeva altro che descrivere le possibilità di ciascuno e dell’infinita libertà che ogni uomo o donna detiene tra le sue mani nel voler formarsi e ri-crear-si quotidianamente secondo le sue azioni e nulla più, in altre parole una descrizione delle potenzialità morali; eppure si può leggere in queste righe un’ambizione mal sopita e riemergente nello spirito dell’Uomo, vale a dire la volontà di voler essere altro, trascendere l’ultimo paradigma ritenuto perfetto e incorruttibile. È un eco e come tale dev’essere interpretato. A posteriori, però, può esser letto anche come i prodromi di un manifesto filosofico teso a rovesciare, per la seconda volta, un modello ontologico e antropologico dato per certo e le cause sono da rintracciare nella necessità da parte dell’Umanità di ribellarsi contro se stessa, di lottare contro un principio datole da sé medesima.
In quelle righe nasce l’Homo Fui. O meglio, viene concepito.
Quando Pico le scrive di certo non è sua intenzione, lo abbiamo già detto, ipotizzare una nuova rielaborazione ontologica del significato di Uomo. L’Adamo che sorge dall’inchiostro filosofico del Nostro è il protoplasma dell’essere umano cristiano che prende cognizione di essere un reale soggetto agente nella quotidianità del mondo ma a cui non vi appartiene per natura, come non è – totalmente – del cielo bensì di entrambi. C’è qualcosa che però manca: una definizione del proprio spazio e della sua natura. “Che cos’è l’Uomo?” è la domanda che implicitamente si pone riuscendo a rintracciare una risposta che è descrivibile così: l’indefinito. Se l’Umanità prima era definibile grazie ai suoi attributi morali, fisici e metafisici, con Pico si profila l’era dell’essere indefinibile.
Con Homo Sum intendevamo un essere completo delle qualità contingenti, transeunti e trascendenti che attraverso loro riusciva a comprendere il proprio agire e interagire con il mondo e il conoscere grazie ai sensi e alla mente tutto ciò che genera conoscenza e scienza. (O per ricorrere a una grammatica già in uso in questa riflessione l’esser-ci e l’esser-sé). Io sono un Uomo significa questo: che ho la facoltà e la capacità di poter determinare nel presente, nel passato e nel futuro ciò che sono e ciò che mi si trova davanti sia esso un animale, un rilievo geologico o un’altra persona riconoscendo tale ente o tale esser-ci (perché, e qui lo delineiamo, l’esser-sé è relativo solamente a se stessi e non all’altro); soggetto e predicato vivono nell’affermazione del paradigma come due elementi sì diversi ma comunicanti, anzi in perenne e continua comunicazione l’uno con l’altro per la necessità di creare perennemente il mundus ospitante. Chiedersi, d’altro canto, cosa sia l’Uomo è invece indice di un passaggio verso l’impossibilità di una definizione chiara, precisa e puntuale sia di sé sia di ciò che è presente intorno al soggetto che domanda. Per questo Homo Fui: in quanto “pastore dell’essere”13, l’Uomo è traghettatore di sé e del suo gregge attraverso nuovi pascoli ancora ignoti a sé e all’essere nella sua completezza. Qui dimora il problema su cui forse Heidegger, che abbiamo brevemente citato, concorderebbe: l’aprirsi dell’esser-ci al problema dell’indeterminatezza (cui segue anche quello dell’esser-sé) provoca il sorgere di un’ulteriore domanda che non può schiudersi con un linguaggio impersonale come il domandarsi che cosa sia la metafisica, l’essere o l’esserci coinvolge e sfida direttamente il soggetto domandante divenendo questi contemporaneamente quæerens e quæsitum. E il problema che viene a porsi è traducibile così: “io sono…?”.
Viene meno il senso di completezza che era presente prima, o è visibile nel frangente immediato il tentativo di individuare un’alternativa alla risposta di una domanda impresentabile obbligando una messa in discussione del rapporto e del farsi filosofia, abbattendo ogni differenza tra il pensante e il pensato; da qui, un ulteriore elemento di riflessione: se con Homo Sum l’Uomo era, per dir così, costretto a pensare il proprio esser-ci e il proprio esser-sé come altro rispetto al mondo che vi si stagliava di fronte, ponendo perciò una differenziazione tangibile tra domandante e osservante e domandato e osservato perché erano palesi le differenze ontologiche tra le due parti in gioco, con Homo Fui questa differenziazione decade dal momento che con l’adozione di tale paradigma non è più possibile concepire o elaborare la realtà come composto di differenti elementi dotati di un’unica particolarità ma altresì come enti che tecnicamente possono essere utilizzati e sfruttati per ricreare un nuovo modello in cui
[l]a decadenza del linguaggio […] non è però il fondamento, ma già una conseguenza del processo per cui il linguaggio, sotto il dominio della moderna metafisica della soggettività, cade in modo quasi inarrestabile fuori dal suo elemento. Il linguaggio ci rifiuta ancora la sua essenza, che consiste nell’essere la casa della verità dell’essere. […] Ma se l’uomo ancora una volta deve ritrovare la vicinanza dell’essere, deve prima imparare a esistere nell’assenza di nomi. […] Prima di parlare, l’uomo deve anzitutto lasciarsi reclamare dall’essere, col pericolo che, sottoposto a questo reclamo, abbia poco o raramente qualcosa da dire14.
Ad oggi tale pericolo è tangente perché è venuto meno, da Pico, il linguaggio rielaborante del chiedersi di sé e del mondo perdendo di vista il rapporto instaurato in precedenza con l’essere – di per sé altro rispetto al soggetto – dopo aver avuto come fine una relazione che funzionasse in ottica di interdipendenza tra le parti; con il mutamento di paradigma l’approccio trascendente e meta-fisico ovviamente muta e perde la prospettiva fin qui adottata per trasformarsi in un semplice strumento o, riscrivendo il concetto, attraverso il sopravvento dell’Homo Fui l’altro o l’altrui da sé conclude la propria esistenza come elemento differente con una sua dignità, anche qui, meta-fisica per scomparire ed assumere un’apparenza indeterminata e non definibile nell’immediato per lo meno in quanto dignus o dignum. E per divenire, invece, strumento e oggetto della Tecnica, compreso – e qui consiste la nuova ed ultima cesura – l’esser-sé e l’esser-ci. La Tecnica e la Scienza sono delle congetture sull’essenza filosofica propriamente dell’esser-sé: l’Uomo Moderno è una riproduzione pornografica di fantasie intellettuali sorte defenestrando l’immaginario metafisico per accogliere al suo posto, invece, un nuovo ideale apparente che nulla ha a che fare con la trascendenza. Si tratta, invece, di un approccio fortissimamente fisico e concreto cui però verrebbe a mancare la mera carnalità di rito, vale a dire il sapore erotico dell’approccio alla vita e all’Uomo e all’Umanità nella sua interezza, sminando quell’approccio che – eticamente – Sartre era riuscito a rielaborare (fuori dal Cristianesimo):
Infatti, non c’è uno solo dei nostri atti che, creando l’uomo che vogliamo essere, non crei nello stesso tempo una immagine dell’uomo quale noi giudichiamo debba essere. Scegliere d’essere questo piuttosto che quello è affermare, nello stesso tempo, il valore della nostra scelta, giacché non possiamo mai scegliere il male; ciò che scegliamo è sempre il bene e nulla può essere bene per noi senza esserlo per tutti. […] Scegliendomi, io scelgo l’uomo15.
La fine della trascendenza è l’inizio, perciò, di un’epoca che procede oltre il reale e il metafisico: è il debutto del Transumanismo, in cui l’Homo Fui si concretizza e instaura una relazione con chi o che cosa lo circonda del tutto nuova e inimmaginabile. Di fronte a sé, infatti,
[l]a vita [si rende conto che] è un problema che cerca una soluzione. […] L’industrializzazione è, da un lato, l’automatizzazione dell’apparato produttivo; dall’altro un divenire-cyborg della forza lavoro che segue l’incalzante ritmo dell’accelerazione logistica delle connessioni e disconnessioni che fanno del proletariato una risorsa economica spogliata della tradizione. I macchinari tecnologici invadono il corpo – lo regolarizzano, lo riprogrammano, lo plastificano. […] Dal momento che il corpo è un sistema parziale o aperto che trasduce flussi di materia, energia e informazione, è in grado di operare come modulo economicamente valutabile di forza lavoro. […] opera, dunque, come un nesso input-output di deviazione dei flussi definito in base alla sua posizione fra le macchine e ridefinito con sempre maggior precisione dalla sua migrazione lungo le mutevoli suture del continuum macchinico. Là dove il macchinario è incompleto ci sei tu16.
L’Uomo, o quel che ne rimane, smette di essere-umano e diventa essere-tecnico o essere-strumento, Land lo rinomina cyborg, e se non cessa le sue funzioni biologicamente vitali (perché effettivamente sussiste, ancora, la vita) tuttavia inizia a non concepire più il reale se non come opportunità di dispersione della propria natura delegando al mezzo parte di sé se non totalmente:
La mano rappresenta un’immagine centrale dell’immagine heideggeriana dell’esserci. Il Dasein (che indica ontologicamente l’essere umano) si collega all’ambiente mediante la mano. Il suo mondo è un ambito oggettuale. Oggi invece viviamo in una infosfera. Noi non manipoliamo cose passive, bensì comunichiamo e interagiamo con infomi che a loro volta agiscono e reagiscono. L’essere umano non è più un Dasein, è un Inforg che funziona comunicando e scambiando informazioni. Parlando di smartphone, gli infomi ci assediano amorevolmente in quanto sbrigano per noi qualsiasi incombenza. Chi vive con lo smartphone è privo di crucci. […] L’esserci è cruccio. Oggi l’intelligenza artificiale è in procinto di smaltire l’esistenza umana, crucci compresi, portando avanti un’ottimizzazione della vita ed eliminando il futuro quale fonte di preoccupazioni: essa debella cioè la contingenza del futuro. Un futuro prevedibile in forma di presente ottimizzato non ci preoccupa più17.
Il futuro prossimo preposto e presentato da Han è consequenziale ma realisticamente ineccepibile, per il semplice motivo – virando sull’aspetto strettamente ontologico – che l’Uomo ha inconsciamente abbracciato l’ultimo grande paradigma umano (è questo e non l’essere umano completo come poteva suggerire Friederich Nietzsche) senza rendersi conto di aver anche accettato la sua lenta liquidazione. La parola chiave, neanche a suggerirlo, è Fui: “sono stato [un Uomo], ora non lo sono più”. Che cos’è adesso o che cosa sta diventando Adamo? La domanda diventa immediatamente prioritaria, seconda solo al “io sono…?” accennato più sopra; ancora meglio, sono congiunte in un dialogo, un circolo ontologico del tutto nuovo e filosoficamente inaspettato. Era quasi un dogma supporre l’Uomo come essere altro rispetto agli enti, pur anch’egli in divenire, ed ora l’assottigliamento della distanza tra gli elementi a fronte di una rilettura della creazione biblica che, al pari di una miccia, ha causato un lento ma costante logorio della consapevolezza di essere-diverso tra esseri ed enti diversi; per inaugurare l’inconsapevolezza dell’incapacità di pensarsi altrimenti. O in altre parole, per tratteggiare un panorama sconosciuto senza la facoltà di possedere alcuno strumento con cui esplorarlo.
L’approccio teoretico non poteva stagnare nella riflessione: l’angoscia di non poter percepire alcunché, né di sé né dell’altro, era inevitabile che sfociasse nella prassi di individuare un nuovo percorso da battere per riprendere la strada volta ad una nuova conoscenza e comprensione di ciò che sta attorno. Da qui il Transumanismo che ha fatto suo l’indefinibile di pichiana memoria per prospettare un futuro, se non un presente, per cui l’Essere Umano è sì un vaso come ha provato a presentarlo metaforicamente Paolo (che abbiamo richiamato all’inizio del nostro percorso) ma il vasaio altro non è che l’Uomo stesso, il creato è il creatore e il creatore è il creato. “Nessun limite se non se stessi”: alla fine potrebbe essere questo il motto del Transumanismo, o meglio ancora “nessun limite se non l’infinito”. Rende meglio l’idea; annullando la definizione di Uomo, impedendo la possibilità di tracciare un solco tra gli esser-ci e annichilendo gli esser-sé. L’unica via possibile per arrivare ad una nuova caratterizzazione dell’essere-umano (lo chiameremo così in questa fase conclusiva) è quella di finalizzarlo e ricrearlo attraverso la propria reificazione tecnica: ma tale fase è già in atto, si pensi agli smartphone e al computer, strumenti impiegati sì per comunicare o svolgere lavori complessi ma anche più banalmente per delegarvi la nostra memoria fotografica e intellettuale. Sempre Han:
Il mondo odierno è molto povero di sguardo e di voce. Esso non ci guarda, né si rivolge a noi. Perde qualsiasi alterità. […] Il mondo diventa irreale, viene derealizzato e disincarnato. […] Il fatto che l’Altro scompaia è davvero un evento tragico. Eppure si compie in maniera così impercettibile che non ne siamo davvero consci. L’Altro come mistero, l’Altro come sguardo, l’Altro come voce scompare. Privato della propria alterità, l’Altro si degrada al livello di oggetto disponibile, da consumare. La scomparsa dell’Altro riguarda anche il mondo delle cose, che smarriscono il proprio peso specifico, la propria vita, la propria cocciutaggine. […] Ma basterebbe una rianimazione dell’Altro per liberarci da questa povertà di mondo18.
NOTA CONCLUSIVA
Il Transumanismo, per concludere, non è solo ed esplicitamente la modificazione radicale dei corpi e della carne come già pensato e teorizzato19; è anche lo sfruttare quotidianamente mezzi tecnici per finalizzare il nostro vivere giornaliero, vedendo in essi una connessione in assenza, però, di relazione. E così l’Io si indebolisce, perde definitivamente coscienza di sé e cede il passo ad una nuova entità, una rete di essere-informazioni: il Transumano è prima di tutto questo, non il fantascientifico Robocop o altro personaggio della letteratura fantascientifica: ma è il produttore e prodotto di informazioni annichilenti sé e spendibili e vendibili nell’infosfera. In altre parole, l’Homo Sum non esiste più; dovremmo chiamarci Homines Fuius.
L’Uomo ha percorso, dall’alba dei tempi, una strada farraginosa e impervia che egli stesso, però, ha costruito. Ha elaborato per sé tre paradigmi concettuali relativi alla propria ontologia che esulano da una linea di costante e regolare progressività illuminata. Se l’homo sum e l’Homo Sum sono stati dei modelli di conciliazione con l’altro e con il mundus circostante, consentendo quindi il concepimento della valutazione dei due elementi caratterizzanti l’Uomo, cioè l’esser-sé e l’esser-ci, con l’Homo Fui, poiché è mancante la possibilità della definizione e perciò della relazione con l’altro perché si riduce l’essere umano a mero strumento, ogni rapporto si annulla in quanto nell’essere indefinibile. Il Transumanismo, quindi, non può e non deve essere conosciuto e letto (o ridotto) ad una corrente filosofica per la quale il futuro dell’Umanità è la modificazione tout court delle proprie membra. Anzi, è sbagliato pensarlo in questa singola ottica: perché è lo stadio finale della sua elaborazione. C’è un retroterra ontologico e filosofico che prima spariglia le carte dello status quo presente, ed è il processo che abbiamo provato ad accennare nelle pagine che si sono seguite fino ad ora. La nuova Umanità non è redenta né liberata; o meglio, nell’emanciparsi da se stessa – dai suoi limiti che sono naturali o strutturali – per rendersi eterna o immortale (questo, in nuce, lo scopo del Transumanismo grezzo) si lega, o si sottomette, al mezzo e all’altro instaurando un rapporto di reciproca schiavitù per cui niente e nessuno è affrancato da qualcuno o da qualcosa. Al contrario, l’inganno che si cela dietro la promessa di redenzione e di una nuova Era dorata è stato escogitato – e qui forse è illuminante riprendere Han nella sua interezza – dalla Tecnica stessa che, avendo preso coscienza di poter-essere altro rispetto al semplice strumento con cui ci-si occupa-di, sottomette la dimensione pubblica e privata dell’Uomo e lo ristruttura diventando il mezzo per eccellenza con cui esprimere se stessa. Religiosamente, il Peccato Originale è stato il cibarsi di Adamo ed Eva del frutto dell’albero della Conoscenza. La Tecnica è uno strumento per conoscere; che fosse questo, alla fine, il messaggio biblico, cioè mettere in guardia l’essere umano dalla Tecnica stessa e dalla fiducia in essa riposta?
Da E libertate æternitas a Ex æternitate captivitas.
10G. Manetti, Dignità ed eccellenza dell’uomo, Bompiani, Milano 2018, pag. 55.
11Ivi, pagg. 177 – 191.
12G. P. Della Mirandola, De Hominis Dignitate, Edizioni della Normale, Pisa 2017, pagg. 5 – 7.
13M. Heidegger, Lettera sull’“Umanismo”, Adelphi, Milano 2015, pag. 73.
14Ivi, pagg. 38 – 39.
15J. P. Sartre, L’Esistenzialismo è un Umanismo, Armando Editore, Roma 2006, pagg. 48 – 49.
16N. Land, Nessun Futuro. Scritti 1995 – 2007, Luiss University Press, Roma 2022, pagg. 65 – 91.
17B. C. Han, Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale, Einaudi, Torino 2022, pag. 9. (I corsivi sono dell’autore).
18Ivi, pagg. 67 – 68. (I corsivi sono sempre dell’autore).
19Cfr. F. P. Adorno, Al di là delle utopie, il transumanismo, in Umanesimo. Storia, critica, attualità, M. Russo (a cura di), Le Lettere, Firenze 2015, pagg. 237 – 254.