Padrini di Israele furono più Stalin e l’Internazionale Comunista di quanto lo fossero originariamente stati gli USA.
Per quanto URSS e USA lo riconobbero contemporaneamente, nel 1948, Israele fu di fatto una creazione sovietica-russa in quanto Stalin sostenne attivamente il neonato stato israeliano sia sul piano della battaglia demografica – in seguito all’espulsione e pulizia etnica dalla Palestina di quasi un milione di Arabi –, sia sul piano militare, dato che tra il 1948 e il 1951 l’armamento sovietico, tramite la Cecoslovacchia, si rivelò decisivo per l’affermazione israeliana sui nazionalisti arabi.
Ancora nel 1968 Ben Gurion, citato da Uri Bialer, disse esplicitamente che Israele nacque grazie a Stalin e al movimento comunista mondiale. Sino ai primi anni ’60, le amministrazioni repubblicane americane sostennero di fatto il nazionalismo egiziano nasseriano contro Israele e contro l’ormai morente colonialismo anglo-francese, e sabotarono la struttura militare sionista, che venne invece sostenuta su tutta la linea dagli imperialisti sovietici e dalla Quarta repubblica francese.
Con le successive presidenze democratiche Kennedy/Johnson, gli Stati Uniti avrebbero cominciato a dotare lo stato israeliano di armamenti avanzati, come il noto missile terra aria Raytheon MIM 23 HAWK; di conseguenza i sovietici avrebbero tentato di marxistizzare il movimento nazionalista arabo: con scarsi risultati, come si vedrà con l’islamizzazione integrale della resistenza palestinese dei giorni successivi e presenti.
Con il crollo dello scià in Iran (1979), Israele diventerà definitivamente l’unica fortezza americana nel Vicino Oriente; le guerre senza fine dei neoconservativi (2001-2016) furono in effetti guerre combattute dagli americani per la gloria d’Israele, ma con la vittoria di Trump e del neonazionalismo cristiano negli USA, a parte la retorica dell’ex presidente americano, la politica mediorientale statunitense tornò quella dei tempi di Nixon, ossia di equilibrata equidistanza tra sionisti e arabi: “Mai più guerre americane per la gloria di altri”.
Non andrebbe infine dimenticato che la struttura culturale fondante lo stato israeliano è storicamente russofona. Gli ebrei russofoni (aschenaziti) della seconda ondata, che hanno concretizzato la cosiddetta “legge del ritorno”, hanno radicalizzato il già forte sostanzialismo culturale di tale segno rafforzando addirittura l’islamofobia ossessiva della società civile israeliana nelle sue varie componenti.
Il nodo della questione è però rappresentato dal fatto che i cosiddetti “rusim” (gli immigrati ebrei russi in Israele, ben rappresentati dall’artista Ziva Chervesky, che con la loro seconda ondata avevano finito per modellare la nuova identità israeliana) sono oggi costretti sempre più ai margini, sia culturalmente che demograficamente, rispetto all’identità mizhraim (“Oriente”) che si sta violentemente affermando all’interno della società civile israeliana.
Se è storicamente scorretto e forzato parlare di nazionalismo israeliano, data la già vista originaria natura di sinistra radicale internazionalista e filocomunista del sionismo, è però corretto parlare di una strategia territorialista e messianico-teocratica gerosolimitana (da Gerusalemme), che si è fatta con forza strada nelle sette religiose “nazionalsioniste” dei coloni e delle élite di estrazione spiritualistica Chabad-Lubavitch, che ormai improntano completamente la stessa politica israeliana ben oltre la fumosa e del tutto irrilevante questione Netanyahu.
Ciò permette di comprendere che la guerra di Israele contro Hamas è destinata alla sconfitta storica colossale, in quanto il problema fondamentale di Israele è un problema identitario, non risolto né forse risolubile, tra la sua natura occidentale e orientale.
Viceversa Hamas, piaccia o meno, ha vinto da anni all’interno del mondo palestinese la sua battaglia identitaria.