Una breve analisi
Non so se Ernst Jünger si possa considerare il più grande scrittore e pensatore tedesco del Novecento, ma di una cosa sono sicura: ogni volta che termino un suo libro mi sembra di aver raggiunto qualche nuova consapevolezza o un grado superiore di conoscenza dell’essere umano, oltre la sua dimensione puramente terrena, oltre il suo semplice nascere e perire, senza scopo, senza senso; avvinto dal materialismo più gretto e fine a sé stesso. Quelli di Jünger, infatti, sono libri capaci di regalare sensazioni quasi mistiche, confluendo nel lettore qualcosa che lo faccia sentire orgoglioso e commosso. Libri che non solo si leggono appassionatamente, ma che di fatto si sperimentano ed essi in cambio ci lasciano addosso tracce davvero significative e indelebili.
Provo a fornirvi una suggestione.
L’immagine immediata è quella di una grande opera pittorica.
Ernst Jünger non si limita a scrivere, ma a mio avviso pennella la vita, così come la morte e l’arte sublime di saperle intrecciare insieme, con maestria e sapienza.
Davanti alle sue opere ci si immerge in toto e con tutti i sensi, come lo si farebbe dinanzi a certi quadri.
Ho scelto quindi di prendere in esame un noto capolavoro di Michelangelo Merisi, in arte Caravaggio.
Giuditta e Oloferne, opera pittorica del 1600, in cui viene rappresentato l’episodio biblico della decapitazione di Oloferne da parte di Giuditta, colei che voleva salvare il proprio popolo dalla dominazione straniera. Accanto alla donna, che ha tutte le sembianze di una ragazza pacifica e graziosa – il che stona con la sua opera tanto veemente – vi è la sua vecchia serva, Abra, intenta a sorreggere il drappo dentro cui verrà conservata la testa di Oloferne. Un altro contrasto evidente è quello fra la florida giovinezza e la decrepita anzianità, così come fra l’azione attiva e diretta e l’attesa passiva. La dinamicità del tempo e il suo inesorabile declino.
Perché proprio quest’opera? Di fatto non saprei spiegarlo ma è l’immagine che più spesso è giunta nella mia mente durante la lettura di La battaglia come esperienza interiore (Edito Piano B, 2014).
Proprio come dinanzi al dipinto di Caravaggio, leggendo gli scritti di guerra del pensatore tedesco, ci si rende conto di provare un miscuglio di sentimenti opposti, fatti di ripugnanza e fascinazione.
Sentimenti antitetici, ma che in realtà tendono ad alimentarsi a vicenda.
Allo stesso modo, ammirando il dipinto di Caravaggio possiamo avvertire un senso di orrore e anche di ripugnanza, ad esempio dinanzi al sangue che sgorga dalla gola di Oloferne, raffigurato nel momento stesso della decollazione e per quel suo volto deforme, reso mostruoso dalla sofferenza che reca con sé una morte tanto violenta e brutale. Nonostante il nostro ribrezzo dinanzi al realismo e al pathos della scena, vi rimaniamo comunque inchiodati e ipnotizzati.
È la stessa cosa che fa Jünger parlando della guerra.
Fra le pagine di La Battaglia come Esperienza Interiore, ci imbattiamo in frammenti che non lesinano nulla riguardo al dolore e alla devastazione fisica e psicologica di un campo di battaglia ma allo stesso tempo tutto questo viene raccontato con l’irrequietezza e la passione di una mente febbrile, in grado di assimilare lo scontro fra le pieghe della propria coscienza, trasformandola in un caleidoscopio di immagini vivide, piene di colori, suoni ed emozioni. Squarci accecanti e sussurri nel buio.
La Guerra, dunque, vera protagonista del saggio Jüngeriano:
«È stata la guerra a fare gli uomini, e di questo tempo, ciò che sono. Una schiatta come la nostra non aveva mai calcato l’arena del pianeta per assumere il controllo sulla propria epoca. Mai prima d’ora una generazione è tornata alla luce della vita uscendo da un cancello buio e imponente – questa è la guerra. E non possiamo negare, come alcuni vorrebbero, che la guerra, madre di tutte le cose, lo sia anche di noi; ci ha forgiato, scalpellato e indurito. E sempre, finché la macina vibrante della vita continuerà a roteare in noi, questa guerra sarà il suo asse. Ci ha educato alla lotta, e resteremo combattenti finché viviamo. Potrà sembrare morta, i campi di battaglia abbandonati e maledetti come camere di tortura o colline da patibolo, ma lo spirito guerriero si è trasferito nei suoi uscieri, e non li abbandona mai. Esso è in noi, quindi ovunque, perché siamo noi a modellare il mondo, non il contrario.»
La lotta e lo scontro non vengono condannati aprioristicamente e nemmeno esaltati in maniera superficiale e idealista. Vengono invece analizzati diversi aspetti, tra cui quelli della devastazione meccanica, della morte, dell’assassinio, dell’annientamento del nemico, del sangue e della sofferenza più feroce, ma anche quelli rappresentanti l’azione portata all’estremo, per motivi certamente più elevati e più puri della semplice opposizione al nemico. Pretesti superiori da non racchiudere in slogan di partito, oppure nelle facili e solite chiacchiere da salotto, ottime per gente avvizzita che non ha mai calpestato i campi di battaglia e non ha mai vissuto uno slancio superiore al proprio “tirare a campare” quotidiano.
Credo che questa sia la cosa più bella e sublime degli scritti di Jünger, ossia saper trovare una terza via di analisi, che è anche il punto di vista che nessuno ama prendere in considerazione, forse per paura di idealizzare troppo la guerra o di romanticizzarla. Jünger invece le dona la giusta riverenza, senza spogliarla dal suo significato più profondo e intenso, senza privarla della sua ricca dose di Eros e Thanatos.
Nella battaglia come in guerra, l’uomo può elevare se stesso, l’uomo inteso anche come semidio. Addirittura, secondo Jünger, gli dèi sarebbero invidiosi della mortalità umana, dal momento che morire per un ideale, fosse anche sbagliato, è quanto di più spiritualmente grandioso si possa fare nell’arco di una vita. Da questo si deduce la volontà di onorare e rispettare il grande mistero della morte. Non solo, grande onore e rispetto vanno attribuiti anche alle azioni eroiche e coraggiose degli uomini.
«L’azione è tutto»
«Il coraggio virile è quanto di più prelibato. In faville divine il sangue schizza nelle vene quando si marcia sui campi diretti alla battaglia, con la chiara coscienza del proprio ardimento. Sotto il passo bellico appesantiscono, come foglie d’autunno, tutti i valori del mondo [ … ]. Il coraggio è il vento che soffia verso coste lontane, la chiave di tutti i tesori, il martello che ha forgiato grandi ricchezze, lo scudo senza il quale la cultura soccomberebbe. Il coraggio è l’impegno della singola persona fino alle più estreme conseguenze, l’assalto dell’idea alla materia senza remore né ripensamenti [ … ].
Al diavolo quest’epoca che ci vuole privare del coraggio degli uomini.»
Ecco che, soffermandomi su questo passaggio, posso azzardare un ulteriore parallelismo con l’opera di Caravaggio. Il dinamismo e la gioventù ardita di Giuditta si contrappongono all’inazione e “indebolimento” della vecchia serva. La differenza che passa fra l’avere coraggio e gettarsi nella mischia della battaglia, per ribellarsi a un’ingiustizia, come appunto a un’invasione straniera, e alla passiva accettazione degli eventi. Restare immobili a guardare è un’opzione non consentita all’uomo che vuole elevare sé stesso e non soccombere fra le maglie letali e asfissianti di una società che avanza a grandi falcate verso l’autodistruzione consapevole.
«Vecchi siamo diventati, indolenti come gli anziani [ … ]. Ormai disabituati alle forti ebbrezze, il potere e gli uomini ci fanno orrore, i nostri nuovi dèi sono la massa e l’uguaglianza. Se la massa non può diventare come i pochi, allora che i pochi diventino come la massa. La politica, il teatro, gli artisti, i caffè, le scarpe tirate a lucido, i manifesti, i giornali, la morale, l’Europa di domani, il mondo di dopodomani: una massa tonante. Avanza come una bestia dalle mille teste, schiaccia tutto ciò che non si lascia inghiottire, invidiosa, parvenue, meschina.»
C’è un altro passaggio in particolare che mi ha molto colpita, quello in cui Jünger cita il ragionamento di un cittadino medio che non è mai stato al fronte, quando questi afferma di provare pena per i nemici, dacché innocenti che non hanno fatto nulla per meritarsi delle pallottole e morire. Jünger dice invece che non sempre c’è bisogno di una ragione o di un pretesto per spingersi fino all’uccisione avversaria.
Il nemico, infatti, non è visto semplicemente solo come un individuo, ma egli riveste simbolicamente un concetto, un principio che talvolta, anzi nel caso di una guerra praticamente sempre, è doveroso attaccare e sconfiggere. Viene facilmente sgomberato il campo da tutti i moralismi, dai finti buonismi di chi in maniera implicita ammette di aver bisogno di un motivo per odiare, di un pretesto o di un alibi per poter fare del male all’avversario; come se la guerra si riducesse a una piccola scaramuccia tra contendenti litigiosi, senza mettere invece in campo delle situazioni e degli obiettivi molto più nobili e profondi, distanziandosi di netto dal concetto di giusto e sbagliato, morale e immorale, torto o ragione.
«La nostra epoca mostra forti tendenze pacifiste [ … ]. Ma bisogna dire le cose come stanno: se lo spirito di un popolo prende una direzione del genere, è un segno epocale della fine imminente. Per quanto una cultura svetti, se il suo polso virile si smorza, allora diventa un colosso dai piedi d’argilla. E più imponente è l’edificio, più chiasso farà crollando [ … ]. Proprio per questo la cultura più alta ha il sacro dovere di avere anche i battaglioni più forti. Solo chi è forte tiene il proprio mondo in pugno: il debole è destinato a farlo evaporare nel caos»
«In questo sono convintamente in sintonia con i pacifisti: per prima cosa siamo esseri umani, e questo ci unisce. Ma proprio perché siamo esseri umani verrà sempre il momento in cui dovremo saltarci addosso. Le occasioni e gli strumenti della battaglia cambieranno, ma la battaglia in sé è una di quelle forme di vita chiare fin da principio: resterà sempre la stessa.»
Essere capaci di scrivere pensieri del genere è prerogativa di uno spirito superiore, di un’anima che vive con estrema intensità ogni situazione, ed è per questo in grado di registrarla in tempo zero, di assorbirla sotto la pelle e di custodirla inalterata, anche a distanza di anni, per poterla poi raccontare, descrivendola senza risparmiarsi sui dettagli e sulle singole sensazioni provate magari decenni prima, non preoccupandosi se lo scorrere del tempo possa andare a mutare o a trasformare le idee, edulcorando i fatti e sbiadendo le memorie.
«Perché il tempo è il più grande artista romantico»
Come verrebbe accolto un libro del genere oggi, in questi tempi in cui si vuole invece a tutta forza mistificare la realtà, imbellettarla, renderla accomodante per le “anime fragili” del terzo millennio? Credo che andrebbe incontro a censure e ammonimenti. Qualcuno chiederebbe a gran voce l’inserimento di fantomatici trigger warning, ossia avvertenze sui contenuti espliciti o su quelli in grado di destabilizzare chi legge; altri invece imporrebbero il veto assoluto di divulgazione, perché posizioni forti e politicamente scorrette, riguardo una tematica divisiva e delicata o controversa, come la guerra, verrebbero immediatamente catalogati e bollati come “antidemocratiche”, o aderenti a certe pericolose ideologie passate.
Chi scrive pensa invece, che opere simili assumano un’importanza fondamentale proprio in questa nostra epoca che sembra fatta di cristallo. Un’epoca in cui i giovani vengono lasciati soli, in balia di eventi più grandi di loro, incapaci di discernere sul serio il vero dal falso, cosa sia giusto e cosa no, oggi che l’asticella del diritto a tutti i costi si sposta sempre un po’ più in là, fino a non avere più un margine di buon senso o un limite personale, un’etica comportamentale che ci insegni quali regole trasgredire e quali no. Cresciuti a pane e serie televisive, il giudizio e l’ideale, molto patinato, vengono inculcati dall’influencer di turno. La battaglia si fa mondana e virale. Non c’è tempo per pensare e riflettere, così come per farsi un’idea propria, ma ce n’è sempre abbastanza per condividere e adornare di Like sulle piattaforme sociali, lo slogan più accattivante e soprattutto quello accettato dalla massa.
Quando lo Status quo vuole costantemente addormentare e addomesticare le coscienze, con distrazioni efficaci e a costo (quasi) zero, intende regalare a se stesso dei sonni tranquilli, che coincidono pericolosamente col sonno collettivo, quello del popolo accomodato e accomodante.
Zitti e buoni.
Un modo di dire, un brano in voga fra gli appartenenti alla generazione fluida, intonato da “celebrità” che “avranno soldi e gloria, ma di certo, non hanno scorza, e che per questo possono godersi il successo finché dura perché il pubblico è ammaestrato e non fa loro paura”.
Tutto questo sembra essere indicativo del nostro periodo storico:
Un popolo muto equivale a un popolo inerme. Un popolo inerme è incapace di difendersi.
Incapace di combattere per un futuro, per un ideale, un obiettivo, un orizzonte condiviso.
Combattere per una nuova alba, una nuova Aurora.
«L’arte della lotta, l’impegno della singola persona, fosse anche per la più minuscola delle idee, conta di più di qualsiasi lambiccamento sul bene e sul male.
Noi vogliamo mostrare ciò che abbiamo dentro, allora sì che, se cadiamo, avremo vissuto.»