«Il pensiero può eludere l’idea di Dio finché si limita a meditare problemi subalterni.»
«Morto Dio, ai miseri titani non resta che intraprendere l’urbanizzazione del pianeta.»
N. Gómez Dávila
Principiamo da questi aforismi di Nicolás Gómez Dávila che introducono alla “necessità” del mito, o, nei suoi termini, dell’«idea di Dio»: se fosse un aspetto opzionale, sarebbe, appunto, poco più che una preferenza che interessa chi lo pratica. Ora, secondo il filosofo colombiano non è così: il mito, vale a dire l’espressione di Dio, o degli dèi, è un fattore costitutivo dell’essere umano. Lo è perché l’uomo, da sempre, in cuor suo domanda un senso, un principio che esaurisca l’intero della sua esistenza. Un senso che però crediamo non essere interamente razionale, ma anzitutto simbolico. Per simbolico, in genere, indichiamo una relazione non immediatamente coscienziale con il mondo (proveremo a riprendere questo passaggio nel finale).
Notiamo, a proposito dell’origine del bisogno di senso, che se l’animale possiede un corredo di istinti capace di guidarlo e determinarlo in tutte le sue azioni, lasciando poco spazio al “caso”, l’essere umano è un animale assai diverso, in questo. L’uomo non possiede istinti, direbbe Freud, ma solo impulsi: per cui il desiderio di bere e di mangiare, ma anche di legarsi agli altri, può declinarsi in molti modi rispetto all’animale, modi che possono essere espressivi e persino nocivi. Nessuno di noi, a differenza di un animale del bosco, sa per istinto quale bacca sia velenosa e quale commestibile, né abbiamo un branco entro cui l’istinto permetta di ripetere la medesima relazione di generazione in generazione. Così non tutti i gruppi che frequentiamo saranno buoni, non tutti gli amici immediatamente in vista, non tutti gli amori riusciti. Lo dobbiamo apprendere. Ma se vi riusciamo quell’amore sarà arricchente, quell’amicizia potente e duratura, quel gruppo vivo e felice: con un risultato di gran lunga superiore a quello semplicemente istintuale.
Così deduciamo che uno degli impulsi umani più importanti sia la coscienza, colei che ha il compito di accompagnare la mancanza di istinti che pre-determinano il nostro comportamento. Come se l’uomo fosse una sorta di esperimento della natura, la quale, invece di guidare per mano i suoi figli dalla nascita alla morte, costella il suo cammino di luci (impulsi) che ne segnalano il sentiero. La direzione, però, è libera. Libera significa che dipende da qualcosa che in nessun altro animale è così potente. La coscienza, questa “novità”, è la capacità di mettere insieme dati, e, pertanto, di prevedere. La coscienza è prometeica. Ma essa corre un serio pericolo quando vuole farsi onnipotente: se nel mito greco essa era stata incatenata dagli dèi (cfr. Prometeo incatenato) ora noi la abbiamo scatenata, lasciando che la terra venisse «urbanizzata» dai titani. Comunque sia, questo impulso, ancorché pericoloso, è il medesimo da cui scaturisce il bisogno di senso.
La richiesta di senso, dicevamo, è un fattore costitutivo. Se ciascuno può eludere per tempo indeterminato il problema del senso, in cuor suo invece l’ha sempre presente. E, lo sappiamo, il senso del moderno e del contemporaneo è il nulla. Vale a dire che noi contemporanei crediamo fermamente che un senso non vi sia. Anche il moderno si interroga sul senso, ma non lo trova, e afferma la sua mancanza assoluta, concludendo che sarà l’uomo a dare il senso che preferisce alle cose. Vediamo allora come vi sia un ribaltamento: prima, nel mito, l’uomo vede nel mondo un senso a lui trascendente, che lo precede, lo accoglie e gli sopravvive; ora non c’è senso che nel frangente in cui l’uomo perdura, come “proiettore” di significati nel mondo. E ciò vuol dire, infatti, che prima e dopo l’uomo (e cioè prima e dopo il suo immaginare significati) c’è il nulla.
Il nichilismo lo sa bene («Dio è morto! E noi lo abbiamo ucciso!»), e noi lo abitiamo ancora.
Ma se non c’è senso oltre a “me”, al mio Io e alle mie idiosincrasie, non si capisce perché debbano esistere valori da anteporre alla sopravvivenza, o, se vogliamo, al proprio arbitrio. Se non c’è nulla che importi, allora importa solo la salvezza, la comodità, la preferenza.
Non ha importanza il mondo, perché senso non ne ha, non ne ha l’Altro (l’altra persona, l’altra specie, l’altra parte di me…) perché quell’Altro è solo un inciampo alla potenza della volontà slegata dal senso. Morto Dio, rimangono i titani, le forze mostruose e incontenibili, la cieca potenza, la cieca follia di un essere umano che si immagina un Dio.
Il mito era questo: il senso che qualificava l’essere umano. L’uomo non è astrattamente ciò che vuole, è la possibilità umana espressa nella cornice del mito. Nietzsche racconta che il greco fu l’uomo più felice, il più nobile, il più riuscito. Il mito che abitava il greco, e che lo definiva, non era un mito della potenza, era un mito che, al contrario della nostra credenza, disprezzava e temeva l’uomo malato di hybris. Hybris è una sorta di ipertrofia dell’io, credere di poter essere tutto – detronizzare Dio per improvvisarsi divinità. È l’allucinazione della volontà, che, pur vagando nel deserto, ha davanti a sé il miraggio di un uomo pari a un Dio. Il mondo non è un deserto, ma una fitta rete di relazioni e significati, che però il nostro modo di vivere distrugge. Il greco era saggio, composto e nobile perché possedeva il senso della misura. L’uomo moderno, liberatosi da ogni vincolo, è pura potenza, arroganza. Hybris è la cornice che qualifica l’uomo di oggi. Potremmo dire che il mito fosse un “contatto” simbolico con Dio, con la Grande Madre, col Sacro che precede ed eccede ogni sorta di progetto umano. La modernità, perdendo questo contatto, ha supposto che fosse l’uomo a dettare i ritmi della terra. Questo passaggio che in principio risultò inebriante, esaltante, ora appare in tutta la sua pienezza distruttiva: passata l’euforia, rimane il tragico. L’ebbrezza del comando si rivela in realtà impotente, giacché “nulla” è il fondamento di ogni cosa. La grande potenza scivola in un paradosso: la coscienza, la volontà, fu felice, nell’istante in cui spezzò il legame con il Sacro, perché finalmente era lei sola a stabilire le “regole”. Eppure, in un secondo momento, si accorse che, se le “regole” le avesse dettate lei, non sarebbero state mai più vere, concrete, reali – legami con il mondo. La volontà malata di hybris ha perso per sempre gli dèi che animavano il pantheon sul capo del mondo. Perdendo gli dèi ha perso tutto: l’appartenenza alla Natura, l’appartenenza a un gruppo di uomini. L’uomo fattosi Dio è solo in mezzo a tutto.
Anche Mario Polia arriva a conclusioni simili per vie diverse, con in vista sempre il desiderio di appartenenza: «Occorre essere coscienti che Dio può fare a meno di noi, mentre noi non possiamo fare a meno di Dio». Ma ciò che principalmente ci interessa delle osservazioni dello studioso è il passaggio in cui avvisa noi contemporanei del pericolo che incontriamo nella nostalgia del tempo passato. Specialmente quando questa nostalgia si improvvisa cultrice di improbabili divinità con cui da troppo tempo si è perso il contatto, e perciò la spiritualità e l’emozione che ne dettavano il rapporto.
«Tentare di riappropriarsi della funzione sacerdotale senza essere legittimati, o “inventare” riti è espressione di una volontà di potenza malata e deviante che sfocia nella hybris titanica, la medesima che Zeus punì con la folgore.
Quando la tradizione sacerdotale è stata interrotta, le forme liturgiche obliate e scomparse, i riti smessi da millenni e millenni, obliate le norme che presiedevano alla loro esecuzione, le divinità private del culto, chi, fra gli uomini, avrà il potere di aprire di nuovo il cammino interrotto per attingere alla Fonte da cui tutte le tradizioni promanano? Chi potrà ridar vita agli dèi morti di inedia?»
Carl Gustav Jung la pensava in modo simile, quando vide certo simbolismo riesumato in forma oscura dal Novecento tragico. Con sgomento osservò, all’alba degli anni ’30, che nessuno avrebbe mai immaginato di vedere marciare il popolo tedesco al passo dell’oca sotto un simbolo ariano morto millenni addietro.
E si badi che Jung non è convinto dell’assoluta morte degli dèi. Al contrario, scoprì, durante il suo lavoro di analista, che il pantheon divino, confuso e inascoltato, abita ancora la psiche umana; al punto che dovette cominciare a studiare la mitologia per comprendere i sogni e alcune somatizzazioni dei pazienti. Chi più di lui era convinto dell’assoluta importanza e necessità del mito! Eppure, sapeva che il cammino intrapreso dalla civiltà non andava affatto in questa direzione, nemmeno se apparentemente si manifesta l’emersione di una pseudo-spiritualità. Tante volte, forse, più che un incontro con gli dèi, essa rappresenta un contratto con i demoni.
Chiudiamo tornando al principio. La questione iniziale lasciata aperta riguarda il rapporto fra mito e filosofia, o, se vogliamo, il rapporto tra simbolo e concetto. Ci interessa nella misura in cui dobbiamo rispondere alla domanda: “di che senso si nutre l’uomo”? C’è anche uno spazio non coscienziale all’interno dell’impulso umano della ricerca del senso? Questo impulso può saziarsi solo razionalmente, vale a dire con gli strumenti prometeici del sapere? La filosofia può fare le veci del mito?
Secondo la nostra tradizione quel senso, infatti, sarebbe appannaggio della filosofia e non del mito, che la filosofia, con il colpo di grazia inferto dall’Illuminismo, ha già da tempo sconfitto. Perché lasciare aperta una prospettiva diversa?
Anzitutto il mito, per sé stesso, testimonia un sapere che affianca il sapere del concetto. Il mito, come la fiaba in grado di molto inferiore, con il suo apparato di immagini e racconti, agisce immediatamente sull’emozione senza necessità di comprensione concettuale. Il mito agisce sull’uomo greco senza che egli sappia a che parte di sé, di volta in volta, il dio si rivolge. Egli lo racconta, lo celebra e lo prega, con un’efficacia “sentita” e non capita.
La provenienza del mito, poi, non essendo concettuale, non deriva dalla decisione degli uomini che a tavolino provano a raccontarsi una verità, che poi, con la filosofia, si rivelerà insufficiente; non c’è una volontà guidata da un concetto (magari aurorale), che “sceglie” di lasciar operare le sue figure: il mito è una sorta di realizzazione istintuale, che “parla” lo stesso linguaggio che talvolta appare in sogno. Dunque, questo linguaggio istintivo, che chiamiamo simbolico, è efficacissimo sulla vita dell’uomo benché egli non ne sappia “tradurre” i significati.
Anche qualora quei significati si potessero tradurre in formula concettuale, la traduzione non sarebbe intera: sarebbe come indicare con il dito un oggetto che il dito, per sé, solo mostra ma non sostituisce. Nessun mito tradotto in forma concettuale sarebbe emozionalmente efficace, anche se fosse comprensibile e giusto. La forma simbolica sembra essere qualcosa in più rispetto alla sola forma razionale. E fra coscienza ed emozione molto spesso c’è divisione, quando per esempio crediamo di poter fare qualcosa, perché appare semplice, ma se ci troviamo nella situazione specifica allora quel “semplice” smette di essere tale. Oppure quando parliamo di cose che “si dovrebbero fare” e che però non abbiamo coraggio di fare, o le diciamo in quel modo perché non riusciamo a immedesimarci nell’emozione di chi è coinvolto nella situazione di cui parliamo.
Pare che la conoscenza non sostituisca l’emozione. Possiamo ambire a un’armonia abbastanza costante fra le parti ma non a un dominio di una sola fra esse. Così ci chiediamo: siamo sicuri di aver abbandonato il simbolico – sembra proprio di no – e di poterlo abbandonare davvero dal desiderio del senso? Un Dio razionale, vale a dire costruito su un impianto logico-filosofico, una sorta di “geometria di Dio”, può mai esaurire il bisogno di senso o rimane indispensabile anche dell’altro ad appagare il desiderio dell’uomo? Un Assoluto filosofico, tra l’altro, è sempre e comunque un intero formale, che non restituisce alcuna ricchezza emozionale; a differenza del variegato e contraddittorio – perché non concettuale! – mondo degli dèi.
Link a una nostra intervista a Mario Polia: