Di Elisabetta Buonavolontà
- La questione “retelling”
La parola “retelling”, tradotta come “riscrittura”, sta prendendo sempre più piede nel campo editoriale e nel lessico di bookstagrammer e booktoker. Ogni volta che si entra in libreria gli scaffali sono pieni di titoli come “La canzone di Achille”, “Circe”, “Clitemnestra”, “Arianna”, “Elettra” e una serie di personaggi mitologici conosciuti o meno al grande pubblico. I lettori si dividono in due categorie, tra chi difende la riscrittura con unghie e denti, vedendola come nuovo genere letterario del tutto legittimo, e chi la critica aspramente, ritenendola sopravvalutata o, addirittura, deturpatrice del mito. Le ragioni ci sono da entrambe le parti; tuttavia, non si può considerare – e l’articolo lo spiegherà – la riscrittura “una moda” passeggera che scadrà quando le persone non saranno più interessate, un po’ come successo alle saghe dei vampiri di una decina d’anni fa.
Ma è davvero così recente come si crede, la pratica del “riscrivere il mito”? Beh, si dovrebbe tornare indietro di duemilacinquecento anni prima di affermare ciò.
- Il Mythos e l’Epos
L’età del mito precede di poco quella dell’epica. Sia mythos che epos significano parola, per quanto con accezioni differenti. Mythos potrebbe derivare da due verbi greci, entrambi appartenenti alla sfera sacra e religiosa. Il primo è mytheo, che vuol dire “raccontare”; il secondo, invece, è myo, intraducibile con un corrispettivo in italiano, ma che può essere interpretato come “coprirsi gli occhi e la bocca con le mani”. Tale atteggiamento è ripreso dalla figura del mysthes, ovvero l’iniziato ai culti misterici. Il mito è una parola “che crea immagini” (eidolopoiòs in greco), che passa da un racconto infimo a una narrazione di elevata sottigliezza e sensibilità.
Epos, attribuito all’aggettivo ieron, ha come significato “parola sacra”. È la trasmissione del sapere pratico e teologico rappresentato dal mito. È un’enciclopedia tribale, un manuale in cui è contenuto tutto lo scibile umano. L’epica greca ha avuto come massimo esponente Omero, e, per argomento, le gesta di eroi di popoli remoti. Potremmo definire mythos ed epos come la “causa e il fine”: il mito è il principio (in greco, specialmente nel lessico della filosofia presocratica, detto archè) del sapere pratico e teologico; l’epica è il methodos e il fine di questo sapere, vale a dire il mezzo con cui lo si divulga e lo scopo stesso per cui è divulgato.
- L’evoluzione di mito ed epica: Esiodo
Tutta questa premessa, relativa al solo mondo classico e nello specifico greco, serve a delineare l’evoluzione del mito e dell’epica e della loro laicizzazione. Il primo passo è compiuto da Esiodo, che Aristotele, nella Metafisica, definisce “il primo dei filosofi”. Esiodo ha lasciato a noi tre opere complete, di cui una spuria e le altre due autentiche: la Teogonia e Le Opere e i Giorni. Mentre quest’ultima è un poema didascalico, la Teogonia (lett. nascita degli dèi) è un poema cosmologico che tratta dell’origine del mondo e degli dèi, narrando quel periodo di tempo che va dal Chaos primordiale al regno di Zeus. La sua cosmologia è stata così accettata dalla tradizione culturale greca da ritenere Esiodo poeta sommo e rifiutare tutte le cosmologie alternative. Ma è proprio questa sua prima rielaborazione del mito, questa sua sistematicità del sapere mitico che non si potrebbe ritenerlo né filosofo né teologo: è un vate, in possesso di ottimi strumenti tecnici e di una vastissima cultura poetica. Già con Esiodo, il mito inizia a perdere di sacralità, cosa che avanzerà col passare dei secoli.
- I lirici e il teatro
Finito il periodo degli eroi e delle cosmogonie, arrivano la lirica monodica – a una sola voce – e corale (coi loro sottogeneri), l’elegia e il giambo: il poeta non parla più del passato e del mito ma di sé stesso, si racconta, e la dimensione omerico-esiodea viene accantonata se non derisa-risemantizzata. Contemporaneamente alla grande stagione della lirica, si sta sviluppando un nuovo genere letterario, predominante nella Grecia classica: il teatro, più nello specifico il teatro tragico. Anche quest’ultimo è partito dalla dimensione sacro-religiosa, e in relazione sono stati scritti moltissimi saggi (il più famoso di tutti è La Nascita della Tragedia di Nietzsche, ma anche Aristotele, nella Poetica, aveva già dato una sua versione dei fatti) che non discuto perché si divagherebbe più di quanto non è già stato fatto. Il teatro ha avuto la sua grande stagione durante l’intero V secolo a. C.: Eschilo, Sofocle ed Euripide ne sono stati i massimi esponenti.
- Il teatro e i modelli paradigmatici cristallizzatisi con esso
I soggetti principali delle tragedie sono personaggi mitologici di cui tutt’oggi sentiamo riecheggiare il nome: chi, almeno una volta nella vita, non ha sentito nominare Medea, Antigone, Elettra, Ifigenia, Andromaca, Ecuba, Edipo, Oreste, Prometeo, Ippolito, Agamennone, Creonte…? Sono figure ormai cristallizzate nella memoria collettiva europea, in particolare italo-greca, e che proprio grazie ai tragediografi hanno assunto le vesti di un archetipo difficile, se non impossibile, da smantellare. Antigone è l’eroina disposta a dare la vita purché siano adempiute le leggi divine; Elettra la figlia vendicativa, che ama il padre e odia la madre; Medea è situata nell’antitesi di maga saggia e brillante e poi di strega barbara, colei che ha ucciso i propri figli; Creonte è il tiranno integerrimo che punisce con la morte coloro che non seguono i suoi dettami; Ecuba e Andromaca sono l’emblema delle donne vinte ma forti e dignitose, che non si piegano alla volontà del nemico senza protesta.
- l’attualizzazione del mito nel V secolo a. C.
Il teatro è un po’ come i mass media della Grecia classica, capace di mettere d’accordo poleis che se non erano in conflitto coi Persiani si distruggevano a vicenda. Esso consiste anche nell’attualizzazione, nel mandare un messaggio che può essere letto anche in chiave contemporanea: nel 415 a. C., Euripide mette in scena le Troiane, che portano avanti un fortissimo messaggio antibellico – siamo nel pieno della Guerra del Peloponneso. Allo stesso modo, quando nel 442 a. C. Sofocle rappresenta l’Antigone – l’eroina che vuole dare sepoltura al fratello che non può essere tumulato per legge – lo fa in relazione a Cambise, imperatore persiano, che circa un secolo prima aveva dissepolto il cadavere di Amasi, re dell’Egitto, e fatto seppellire vivi dei nobili persiani. La degna sepoltura, il rispetto verso la divinità, il senso di giustizia, l’accecamento divino, la tracotanza (in greco hybris), la pudicizia… questi sono tutti valori del mondo classico che gli antichi drammaturghi trasmettevano nelle loro opere, attribuendoli alla situazione o, addirittura, a un personaggio più volte reinterpretato nel corso della storia. Si pensi a Elettra: la sua figura è sbocciata con Eschilo, poi con Euripide, poi con Sofocle, con Hofmannsthal, con Strauss, con la Yourcenar; o ancora a sua sorella Ifigenia, con Euripide, Racine, Goethe, Ritsos… l’interpretazione del mito e la sua riscrittura non hanno origini recenti, ma sono da ricondurre all’alba dei tempi, ai mitografi, agli aedi, ai tragediografi…
- E dopo?
I miti sono stati sempre reinterpretati, anche in epoca romana. Un esempio sono le Heroides di Ovidio (epistole delle eroine della mitologia verso i propri amati), o – e forse qualcuno mi taccerà di blasfemia – addirittura l’Eneide di Virgilio, voluta sì per motivi politici, ma ricollegata a un mito, quello di Enea, diffuso nella penisola italica da più di cinque secoli. La sua reinterpretazione più importante è stata appunto quella politica, ma ci sarebbero tantissimi altri modi per vederla e intenderla. Facendo un enorme salto nel ventesimo secolo, sorvolando sulle varie reinterpretazioni medievali (che spesso collegano gli eroi classici alle stirpi dei signori di quei tempi), rinascimentali, barocche, illuministiche (si pensi alla figura di Prometeo e al prometeismo) e romantiche, abbiamo autori dal calibro di Robert Graves e Mary Renault. Questi ultimi hanno proposto, mediante i loro romanzi, la propria reinterpretazione storicizzando i fatti, servendosi dei saggi del XIX e XX secolo per rappresentare un quadro chiaro e nitido, che esce dalle nebbie del mito. Di Graves abbiamo il suo “Vello d’oro”, della Renault una splendida duologia su Teseo. E ancora Christa Wolf, con le sue “Cassandra” e “Medea. Voci”, in cui ribalta le prospettive; Cesare Pavese, nei suoi “Dialoghi con Leucò”, in cui offre, mediante dei dialoghi, diverse riflessioni dei personaggi della mitologia e della letteratura classica; Marion Zimmer Bradley, che con la sua opera “La Torcia” offre il punto di vista di Cassandra negli ultimi giorni di Troia, in chiave più volte definita femminista; la sopracitata Marguerite Yourcenar, che ha reinterpretato Clitemnestra, Alcesti, Elettra, Antigone, Fedra, Elena…
- Cos’è andato “storto”?
Dal XX al XXI secolo di riscritture ne sono state prodotte tante, specialmente in modo da attualizzarle e renderle fruibili per i tempi correnti. Alcuni dei temi principali sono stati il femminismo, il cambiamento di prospettiva, messaggi antibellici, una critica agli autori che per primi hanno trattato personaggi mitologici, risalendo alle origini. Cos’è che fa scattare la rabbia, allora? Se i miti hanno iniziato a reinterpretarli i Greci stessi, all’epoca del teatro, perché oggi fa così specie? Ecco: così come il mito ha subito una laicizzazione, nel corso dei tempi, da che era relegato a una sfera religiosa – Platone stesso diceva che, ai suoi tempi, il mito era stato mal interpretato e ridicolizzato – così le riscritture, con un’attualizzazione sempre più radicale, diventano anacronistiche e ridicole. Pur di avere la presunzione di portare in toto il proprio punto di vista, gli autori distorcono il mito, manovrando i personaggi, figli comunque del loro tempo, mettendo nelle loro bocche parole o pensieri impensabili. L’anacronismo avviene anche in diversi romanzi storici, ma è molto più singolare nel mito perché più subdolo: desacralizzandolo, e confondendolo con un racconto fantastico, ognuno vi scrive ciò che vuole, rendendolo un prodotto di consumo e non più di erudizione, acculturamento, ampiamento del punto di vista, come accadeva nelle epoche precedenti. Ciò che manca a molti autori di riscritture è la conoscenza: la conoscenza delle opere da cui si prende ispirazione, del contesto storico-politico-culturale, degli sfaccettati messaggi presenti dietro un singolo racconto. Per scrivere un qualcosa di così importante, inerente al mito, bisognerebbe approcciarsi così come avevano fatto Esiodo e i poeti tragici: con umiltà, munendosi di minuziosa conoscenza, portando avanti un messaggio che non deturpi né ridicolizzi la storia che si sta andando a toccare, a modificare, a riutilizzare, a riscrivere.
- Conclusioni
No, le riscritture non vanno demonizzate, perché sono capaci di avvicinare al mito quei lettori non ancora avviati al mondo classico. Raccontano una storia da diversi punti di vista, sono sensibili alla società contemporanea; eppure, l’invito a tutti coloro che riscrivono, è tener conto di ciò che sia lecito dire e ciò che non lo è. Bisogna rispettare il mito: vederlo in una dimensione sacrale potrebbe essere difficile anche per un fine conoscitore, perché è lontanissima da noi e dagli stessi poeti che hanno iniziato la sua divulgazione. Sarebbe più facile tener conto della sua presenza, conoscere studiando dai testi accessibili, senza essere nemmeno troppo fanatici, perché altrimenti perderebbe di personalità. Ma, soprattutto, di non essere troppo servi di una società: di non scrivere un qualcosa piegandosi alle leggi del mercato, del cosiddetto politicamente corretto; di non dare un messaggio di uguaglianza o di femminismo solo perché piace, è ruffiano e ottiene facile successo. Perché col senno di poi, la sostanza perde di valore, e si finisce per produrre riscritture tutte uguali e senza nessuna distinzione l’una dall’altra. L’intento ultimo? Dimostrare che può esistere una via mai banale e che faccia da ponte tra originalità, fedeltà mitologico-storica e il proprio, personale, intoccabile punto di vista.