di: Franz Trinchera
Quando nel Febbraio del 1945 le sorti della Seconda Guerra Mondiali apparivano più che mai chiare, le superpotenze (future) vincitrici si incontrarono a Yalta in una importantissima conferenza che delineò il destino del mondo in sfere di influenza. Dopo lunghe discussioni Churchill, Roosevelt e Stalin trovarono un accordo che fecero ben intendere sarebbe rimasto rispettato, e così fu: non è un caso, ad esempio, che quando le preponderanti forze comuniste, in Italia e in Grecia, cercarono di muoversi verso una rivoluzione socialista nazionale, fu proprio l’Urss a stroncare tali ambizioni sul nascere ben conscia che quei determinati paesi rientravano nella sfera di influenza anglo-americana. Bene o male, per lo meno in Europa, tali sfere di influenza vennero rispettate nei decenni a seguire. Fu negli anni ’90, dopo il crollo dell’Urss e una fase iniziale in cui la Russia era sempre più un non-paese in svendita che le forze della Nato decisero di forzare la mano, soprattutto in Jugoslavia. A cambiare le carte in tavola fu, nei primi anni 2000, l’ascesa di un giovane ex-colonnello del KGB che si era contraddistinto nella crisi cecena, Vladimir V. Putin. Putin incominciò una lenta ma decisa opera di ristrutturazione della Russia che ben presto tornò, tanto militarmente, quanto economicamente e politicamente, a ripresentarsi sullo scacchiere internazionale come una superpotenza con cui fare i conti e naturalmente una Russia superpotenza e non più arrendevole come lo era stata nell’Era El’cin, non poteva tollerare il progressivo allargamento della Nato negli ex-paesi del Patto di Varsavia. Certo i rapporti di forza non erano più equilibrati come in epoca sovietica, bensì pendevano dal lato di chi la Guerra Fredda l’aveva vinta, e così la Russia si dovette accontentare di non vedere inglobate le ex-Repubbliche sovietiche, accettando però, nolente o volente, l’ingresso nella Nato degli ex-Stati satellite (eccezion fatta delle Repubbliche Baltiche entranti nella Nato nei primi anni di presidenza Putin).
Con il passare degli anni però l’opera di Putin si è sviluppata sempre maggiormente, sino a porre la Russia come protagonista incontrastata di un mondo sempre più tripolare (Usa, Russia e RPC). Mosca ha iniziato a far sentire la sua voce anche in campo intercontinentale ponendosi a difesa di Siria, Cuba, RPDK e Venezuela. Ma si sa che le schermaglie nel terzo mondo erano state sempre ben accette, i vari conflitti vietnamita, arabi e africani ne erano state una riprova, era l’Europa quell’area geografica in cui bisognava mantenersi equilibrati sui paletti strutturatisi da Yalta in poi.
Eppure nel 2014, in seguito alle rivolte di Euromaidan, l’Ucraina si è posta come pericolosissimo precedente, per la prima volta stava venendo toccata una delle tre principali ex-repubbliche sovietiche (le altre erano Russia e Bielorussia). Se successivamente tali manovre sono state provate anche in Kazakhstan e Bielorussia, li Putin è riuscito a intervenire stroncando le rivolte sul nascere, ma l’Ucraina, come preventivabile, non si era dimostrata una facile gatta da pelare. I governi occidentali avevano spinto, per la realizzazione di tale cambio di rotta da parte di Kiev, sulle forze più etno-nazionaliste, estremiste ed anti-russofone possibili che logicamente iniziarono a mettere in atto i propri propositi nei confronti delle popolazioni russofone delle zone orientali del Paese. L’intervento russo in Dombass e l’annessione della Crimea (con il pieno consenso del popolo crimeano) da parte dei russi furono due conseguenze scontate. Se con Trump si era provata una via diplomatica con il riproporsi del rispetto delle zone di influenza, la vittoria di Biden ha invertito totalmente la rotta indirizzando verso uno scontro diplomatico apertissimo con Mosca sino ad arrivare a (possibile) casus belli: la volontà di far entrare l’Ucraina nella Nato.
In queste ore si parla di sottomarini nucleari sovietici al largo di Seattle, di sempre maggiori dispiegamenti di forze nato nei paesi confinanti l’Ucraina e di forze russe in Bielorussia e al confine russo-ucraino, minacce sempre più insistenti, ipotetiche fughe di notizie da parte dell’intelligence e tutti gli ingredienti ideali per una spy story hollywoodiana, il problema è che non siamo seduti al cinema e le conseguenze sembrano gravi per tutti.
Lavrov ormai fa la spola tra Londra e Parigi, la linea rossa Casa Bianca – Cremlino è sempre più bollente e ogni ipotetica soluzione diplomatica naufraga rovinosamente. Questo perché gli Stati Uniti hanno tutto l’interesse nello scoppio di una guerra e perché dal canto suo se la Russia accettasse le soluzioni americane a un problema creato dall’America stessa subirebbe uno smacco immane creando quel precedente “possiamo fare ciò che vogliamo, Mosca è arrendevole”. Ma quali sono i reali interessi di Washington nell’innescare una guerra russo-ucraina? La possibilità di allargare la Nato all’Ucraina e poter dispiegare li basi militari è una risposta banale quanto miope e scontata, la problematica è ben altra, essa è di natura energetico-economica.
Gli Stati Uniti non stanno riuscendo a tenere il passo con il colosso cinese, che nonostante la pandemia va a ritmi sempre più spediti, e la Russia che dal canto suo si pone come principale partner energetico di mezzo mondo, basti pensare che la russa Gazprom fattura per oltre 120 miliardi di dollari annui (poco meno dell’intero pil ucraino che ammonta a 156 miliardi di dollari e superiore al pil di stati membri della UE quali Slovacchia, Bulgaria, Lussemburgo, Croazia, Slovenia, Lituania ecc). Abbattere il gigante russo con forti sanzioni economiche, con la scusa di condannarlo come reo di aver invaso un paese sovrano, vorrebbe dire eliminare il più tenace avversario in affari per porre le multinazionali energetiche USA come unico partner possibile dell’Europa, e si sa che in assenza di concorrenza il detentore del monopolio è libero di fare i prezzi che vuole.
Insomma la Russia ha tutto da perderci e gli USA hanno tutto da guadagnarci. Ma in questo come si pone l’Europa? Lo spettacolo è ahimè desolante, sempre più l’UE europea si pone come una misera colonia degli Stati Uniti, pronta ad auto-fustigarsi pur di compiacere l’amante-padrone: se tutti i paesi europei, in primis i campioni del “vorrei ma non posso” francesi e tedeschi, si stanno subito, forzatamente, schierando al fianco di Washington, ad essere sempre più in ansia sono proprio le industrie di questi. Non è un caso che appena l’Italia ha aperto le sue frontiere marittime al naviglio americano, i CEO di Eni, Intesa Sampaolo e altre importanti aziende italiane, sono volati a Mosca a colloquiare con Putin ad insaputa della Farnesina stessa. Oggi Scholz, che eredita la cancelleria tedesca nel peggior momento possibile, ha dovuto annuire con le lacrime agli occhi, alla sentenza di Biden che sostituendosi a questo ha detto “se la Russia attacca il gasdotto Nord Stream 2 cesserà ogni attività”, peccato che il gasdotto (il più lungo del mondo) costato 11 miliardi di dollari non sfiori neanche lontanamente i confini del continente americano e che trasporta in Germania, e non in America, oltre 55 miliardi di metri cubi di gas all’anno. Insomma Biden con uno schiocco di dita demolisce il maggior investimento tedesco e Scholz annuisce aspettando il biscottino a forma di osso. Non se la vede certo meglio la Francia con un Macron bullizzato da Putin nell’incontro tra i due e sulla figuraccia della segretaria agli esteri inglesi meglio stendere un velo pietoso dopo che Lavrov la lascia sola in conferenza in seguito alle dichiarazioni di questa riguardo a un non riconoscere Voronezh e Rostov come città russe nonostante esse appartengano senza alcuna contesa internazionale alla Russia, la prima dal XII secolo e la seconda da sempre essendo stata fondata dalla Zarina Elisabetta nel secolo XVIII. E l’Italia?
L’Italia, ancor peggio delle colleghe europee che almeno inizialmente hanno provato con timidi balbettii a tirarsi fuori, si è da subito schierata apertamente con Washington, nonostante al contrario di Germania e Francia, non possedendo centrali nucleari, non ha alcuna autonomia minima per resistere al freddo inverno con i rubinetti russi chiusi. Se per tedeschi e francesi la crisi energetica sarà pesantissima nonostante proprio quelle centrali nucleari, per l’Italia si profila una ecatombe, a meno che le tanto osannate pale eoliche non ci permettano di spiccare il volo facendoci atterrare su giacimenti gassosi atlantidei. Il caro bollette subirà un aumento esponenziale dovuto non solo alla chiusura del commercio con la Russia, ma soprattutto con il precedentemente citato monopolio americano che in assenza di concorrenza sparerà i prezzi che più preferisce, ciò colpirà le famiglie italiane da due direzioni, la prima sarà la appena nominata inflazione dei costi di gas e luce, la seconda sarà relativa all’improvviso aumento del tasso di disoccupazione che ci sarà quando centinaia di imprese italiane falliranno non potendo coprire i costi energetici, con giubilo delle multinazionali americane, in primis le web-companies che vedranno sparire tutti quelle imprese che non dico potessero farli concorrenza, ma che qualche briciola tentavano di sottrargliela: crisi energetica e restrizioni pandemiche, un proiettile alla nuca che nessuna azienda italiana riuscirà a schivare.
La questione non è con chi schierarsi per mere ragioni ideologiche, la questione è chiedersi cosa convenga all’Italia, ed è chiarissimo che schierarsi con Washington significa condannarsi a morte. Ma si sa, l’Italia nella sua storia non ha mai brillato per lucidità sugli schieramenti internazionali da prendere e in questo caso non tradisce la sua fama. Si, Washington ha tutto da guadagnare, Mosca ha tutto da perdere, ma tra le due nel baratro ci finirà un’Europa sempre più zerbino, l’Italia poi di quello zerbino sarà la parte più consumata e sudicia.
Il banco di prova ucraino sarebbe potuto essere un ottimo strumento per porre le potenze europee come nuove protagoniste sul piano geopolitico, formidabili intermediarie pronte a difendere i propri interessi, l’occasione perfetta per vedere l’Europa nuovamente centro di gravità ma si tramuterà in un disastro più totale, e no, la colpa non è di Biden o chi per lui, che giustamente guarda ai propri interessi nazionali, ma delle leadership europee ed i loro elettori, che al contrario proprio di Biden l’interesse nazionale non sanno che cosa sia, l’hanno svenduto per un incubo a stelle e strisce. Triste requiem che anziché sulle note di Chopin si suonerà sulle note di qualche brano pop d’oltreoceano.