IL CATTIVO POETA
IL CATTIVO POETA

IL CATTIVO POETA

Di: Franz Trinchera

Una recensione del recente film sulla figura di Gabriele D’Annunzio

Gianluca Jodice esordisce sul grande schermo con un soggetto tutt’altro che semplice: Gabriele D’Annunzio, e non il D’Annunzio celebrato di Fiume o Vienna, ma il D’Annunzio esiliato nel Vittoriale, il D’Annunzio osservatore silente. Una scelta azzardata ma in questo caso il Memento Audere Semper è più che mai attuale. L’intera pellicola è un lungo, solenne e cinereo funerale, il trionfo del Decadentismo. E ciò lo si concerne già dalla scelta di luci e ambiente, quando il film è girato in spazi aperti è notte, oppure diluvia, oppure il cielo è plumbeo, e anche quei rari momenti in cui il sole brilla in cielo fanno presagire allo spettatore che l’orario sia di tardo pomeriggio, a pochi minuti dal crepuscolo. Ed anche le scene girate negli interni sono ombrose, cupe, soffuse, spesso viranti sul color seppia o sul grigio pietra. Scelte che qualcuno può trovare demodè altri invece comode perché figlie di un cinema già affermato, in realtà in qualsiasi modo lo si voglia vedere, tali luci sono necessarie all’atmosfera decadente, non si potrebbe descrivere D’Annunzio degli ultimi anni in modo differente, sarebbe togliere a Bergman il bianco e nero.

 A farla da padrone sono i contrasti di un film che si sviluppa in verticale, ovvero nella verticalità architettonica dei marmi della Roma e della Brescia fascista, strutture squadrate, chiare, pulite, diritte, maniacalmente perfette in ogni angolo, contrapposte ad un Vittoriale che più che fremente di opulenza e lusso appare tetro, soffocante, polveroso, quello che nell’immaginario di tutti dovrebbe essere uno dei luoghi più affascinanti nel quale vivere riesce a trasmettere allo spettatore il senso di prigionia e rassegnazione che appaiono nello sguardo del Vate. Ma ancor di più le grandiosità architettoniche del regime si contrappongono a uomini sproporzionatamente piccoli, in una visione non necessariamente politica, ma in una visione entropica di una umanità formata da piccoli tasselli, quasi insignificanti nell’incessante scorrere del tempo.

Castellitto è sempre più interprete della storia d’Italia: Rossini, Ferrari, Padre Pio, Don Milani, Vassallo, Chinnici, Moro. Certo questi ultimi sono grosso modo eroi nazionalpopolari, D’Annunzio al contrario è un personaggio da sempre tanto diviso quanto provocatorio, ma l’attore romana riesce ad esprimere una delle sue migliori interpretazioni, a larghissimi tratti teatrale, scelta più che mai azzeccata se non altro per l’aggiunta d’ancor maggiore solennità.

A parlare oltre le luci, le inquadrature, i paesaggi e l’intero comporto fotografico sono soprattutto gli altri interpreti: federali, gerarchi, commissari di polizia, amanti, architetti, è D’Annunzio il “grande assente” della parola, a uno sguardo disattento pare quasi che il film più che sul poeta sia incentrato sul giovane Federale Comini, ben interpretato da Patané, in realtà D’Annunzio è protagonista assoluto senza esserlo direttamente, è la cupa atmosfera a parlare per lui, la stessa storia d’Italia che corre velocissima, superando i tempi del film, e piomba su spettatori e attori in modo improvviso sempre esentare da tale tonfo il Vate che come una moderna Cassandra la predice.

Ma non sono fiele e amarezza le uniche a fare da padrone all’ultimo D’Annunzio a cui non mancano certo gli slanci vitali, il desiderio del bello, la furia erotica, l’eccesso psicotropo, ma che continuano però a sembrare ombre di tempi che furono. I rimandi a Fiume esplicano quanto ciò che oggi appare grande allora lo fosse immensamente di più. Le donne sono protagoniste nascoste ma fondamentali, appoggiate dietro la porta, ombrate dalle tende, ci sono e reggono le trame senza essere mai inutilmente al centro dell’attenzione.

Un’ultima nota va sugli strilli di defascistizzazione/fascistizzazione di D’Annunzio. Il film a mio parere non prende posizioni politiche, l’intento è di mostrare gli ultimi anni del poeta e come essi si intreccino con la storia d’Italia da un punto di vista molto più intimo che politico, la stessa scena dell’automobile in cui D’Annunzio rivela a Comini la propria definizione di “Politica” è perfettamente espressa dalla sceneggiatura stessa. Il film riesce a mostrare il terrore per la guerra, la repressione, la violenza squadrista, il malcostume degli alti papaveri, la miseria umana come riesce a mostrare gli slanci, i destini forti, il marmo che si erige sull’uomo, un Italia grosso modo inquadrata e compatta come raramente è stata nella storia. Sta allo spettatore farsi la sua personalissima idea. E lo stesso D’Annunzio non si esprime certamente in modo oltraggioso verso l’idea fascista in se ne nega la sua complicità con essa, le critiche pesanti di D’Annunzio sono verso la politica tutta, fascista e no, sono verso i politici (fascisti e no) e non certo verso i “soldati” (fascisti e no) verso i quali continua a nutrire un sentimento profondissimo e struggente (la scena del saluto ai legionari è una perla di rara bellezza) e sono soprattutto verso Hitler e i popoli d’oltralpe che egli aveva sempre avversato sin dal 15-18. D’Annunzio si sente la responsabilità di essere D’Annunzio, di comprendere, il “memento mori” a Mussolini a Verona è ricolmo della disperazione cassandriana di D’Annunzio.

Il Cattivo Poeta si dimostra un film difficile, amaro, solenne, lugubre, decadente ma comunque segnato dalla necessità di spiccare il volo ed andare oltre nonostante tutto, in poche parole, D’Annunziano!