Di: Carola Del Giudice
Riflessioni sull’importanza dell’interiorità
Viviamo in un mondo in cui la tecnica ha ormai rimpiazzato l’umanità, in cui avere è più importante di essere. Una visione senz’altro svilente dell’essere umano, poiché del sentimento conserva poco o nulla. La società attuale sembra progressivamente disinteressarsi al bello, alla condivisione, alla solidarietà, all’altruismo, dando ragione a quell’idea hobbesiana secondo cui “homo uomini lupus” (ciascun uomo è un lupo per l’altro – e rappresenterebbe dunque un pericolo). Come fare a ritrovare l’umanità? Molti sostengono che l’empatia e la sensibilità possano essere apprese – tanto da essere oggetto di didattica in diversi Paesi del mondo. È necessario sviluppare una “teoria della mente” (David Premack e Guy Woodruff), ossia la capacità di comprendere le intenzioni, le emozioni ed i desideri altrui. Un aspetto particolarmente interessante di tale teoria sta nel fatto che la conoscenza di sé stessi e di chi ci circonda passa attraverso l’introspezione, unita al comprendere che gli altri hanno stati mentali propri, diversi dai nostri. A proposito di introspezione, bisogna ricordare la famosa esortazione incisa sul frontone del tempio di Apollo a Delfi: “gnōthi sautón” (o “nosce te ipsum”), ossia “conosci te stesso“. Questa massima, nella sua apparente semplicità, attraversa tutto il pensiero filosofico – soprattutto quello antico. Conoscere sè stessi significa indagare e scoprire le proprie potenzialità, ma anche i propri limiti; significa comprendere la propria natura di ente razionale e relazionale, in costante rapporto con l’altro e con il mondo: non solo esistere, ma coesistere; significa imparare a sentirsi parte del tutto, in un’armonia cosmica – che è possibile soltanto se tutte le parti collaborano a costituirla. Ancora, “gnōthi sautón” è scavare all’interno di sè stessi, in un viaggio che dura una vita e che talvolta può far paura: addentrarsi nella “selva oscura” della psiche, esplorare anche i propri lati in ombra. In questo, l’essere umano ha tre grandi alleate: la filosofia, la letteratura e l’arte. A proposito della seconda, Francis Scott Fitzgerald afferma: “Questa è fra le cose più belle della letteratura: scopri che i tuoi desideri sono universali, che non sei solo, che non sei isolato da nessuno. Sei parte di“. Lo stesso si può dire dell’arte, tra i più antichi mezzi di espressione e comunicazione – come testimoniano già le grotte di Lascaux. Quante volte capita di sentirsi compresi, di sentirsi a casa, “solo” guardando un’opera d’arte o leggendo un libro? Quel libro che sembra parlare di noi e a noi, che ci consente una vera e propria esperienza interiore, l’esplorazione di cui si parlava. Un’esplorazione di cui, al giorno d’oggi, non si capisce più l’importanza; ne risulta un individuo estraneo a sé stesso. In quest’ambito si inserisce anche l’analisi di Zygmunt Bauman – sociologo, filosofo e accademico polacco. Egli parla di modernità liquida e di vita liquida, tipica del soggetto che si adegua alle attitudini del gruppo per non sentirsi escluso: un’esclusione che deriva dal non poter comprare per sentirsi parte della modernità, spiega Bauman. In una società siffatta, l’interiorità – insieme a tutto ciò che è legato ad essa – passa in secondo piano; si predilige ciò che arricchisce materialmente, dimenticando ciò che giova dal punto di vista umano. Abbiamo un’urgente necessità di recuperare questa dimensione, pena la più totale alienazione e lo sradicamento. «Il bello e il brutto, il letterale e il metaforico, il sano e il folle, il comico e il serio… perfino l’amore e l’odio, sono tutti temi che oggi la scienza evita. Ma tra pochi anni, quando la spaccatura fra i problemi della mente e i problemi della natura cesserà di essere un fattore determinante di ciò su cui è impossibile riflettere, essi diventeranno accessibili al pensiero formale» (Gregory Bateson – Dove gli angeli esitano).