«L’unica cosa che conta è il finale, la cosa più importante della storia è il finale, e questo funziona a meraviglia.»
Appropriandomi delle parole di Martin Rainey (il Jonny Deep di Secret Window) dichiaro che in questo articolo non verrà rivelata alcuna informazione riguardo il finale – né tantomeno la trama – della decima pellicola di Quentin Tarantino (undicesima se si conta il capitolo finale in Four Rooms), “il regista più influente della sua generazione” (a detta del regista e critico cinematografico Bogdanovich).
C’era una volta a… Hollywood è un film che chi ama il cinema difficilmente disprezzerà (mentre chi addirittura lo venera non potrà che gongolare per tutta la visione).
Lo spettatore viene scaraventato nella L. A. degli anni 60 e si trova a confrontarsi con il clou della più grande industria cinematografica (e culturale) dell’Occidente, attraversando tutte le fasi della nascita del prodotto-film, a partire dalla produzione, passando attraverso il girato nel set cinematografico, fino a ritrovarsi in compagnia degli spettatori direttamente nei cinema di Hollywood.
In tale contesto si sviluppa il geniale intreccio tra la realtà storica (dei fatti) e l’invenzione narrativa (della fiction): se in primo piano vi è la storia di Rick Dalton e Cliff Booth – il primo è un attore sulla via del tramonto della propria carriera artistica mentre l’altro è la sua personale controfigura (interpretati rispettivamente da Leonardo Di Caprio e da un Brad Pitt in ottima forma) – sullo sfondo, infatti, aleggiano per tutto lo scorrere della pellicola le vicende, a cinquant’anni di distanza, connesse al “massacro di Cielo Drive” (per chi non lo sapesse la strage che vide uccisa Sharon Tate – moglie di Roman Polanski – all’ottavo mese di gravidanza per mano di un gruppo di hippies guidati da Charles Manson).
Il rischio di una catastrofe cinematografica, per Tarantino, si trova dietro l’angolo e la possibilità di innestare un’esplosione mediatica di notevoli dimensioni – nonché, dall’altra parte, quello di sminuire eventi così significativi nell’immaginario nazionale americano – rimane tangibile durante tutta la visione. Ma si sa: “le idee migliori non vengono dalla ragione, ma da una lucida, visionaria follia”.
E così le due storie, nell’incedere della trama, si sviluppano e s’intersecano senza mai incontrarsi, ed il viaggio nella Hollywood opulenta entra in netto contrasto con la neonata realtà Hippy – decisamente antitetica – che aumenta gradualmente i suoi accoliti. Ed è grazie al simbolo del cinema mondiale dello spettacolo e della finzione che saltano alla luce le contraddizioni di un sistema consumista-culturale marcio sin dalle fondamenta il quale non può che trovare, come antitesi, un gruppo di ragazzi scellerati (spesso inneggianti a satana) figli della stessa nichilista logica del consumo.
E chi può combattere un male così assurdo?
L’eroe (o meglio l’anti-eroe) non può che essere “interpretato” da un attore fallito, un anti-divo in camicia da notte che urla e impreca ubriaco con in mano un Margarita (Di Caprio). A fargli da spalla c’è il suo compare, la fedele controfigura – la controparte “narrativa” del “realistico” fiasco-protagonista – un robusto uxoricida strafatto di acidi (Brad Pitt) capace di mettere al tappeto persino Bruce Lee.
Ed è proprio qui che avviene la magia: la narrazione e la verità si mescolano e stimolano alla riflessione in una così paradossale e drammatica vicenda. E la stessa realtà strizza l’occhio alla finzione narrativa, in un misto di esilarante passione e suggestiva follia, senza mai correre il rischio di incorrere in banalità o celebrazioni di alcun tipo, mostrando che l’unico mondo a non avere alcun limite rimane quello del cinema.
Eccovi servito, in salsa postmoderna, il più realista dei film del regista americano, il quale – forte della sua maturità artistica – continua a stupire le platee di tutto il mondo e a far trionfare su tutto, comunque vada, il grande cinema.
«In questa città può cambiare tutto all’improvviso. Questo è il luogo dove tutto è possibile!»
[Rick Dalton]