FOTO FINISH
Sento arrivare il momento della conclusione. Ho ancora molto fiato per correre, ma ho la sensazione che questa maratona si sia già conclusa, anzi, forse, devo chiuderla volontariamente io – ma quando hai oltrepassato il traguardo? – . Sono partito un po’ a rilento, credo d’esser pazzo, ma sono sicuro che il tempo che ho impiegato per raggiungere questa meta, non sia calcolabile in secondi, minuti o anni. Ho questo ricordo molto irreale: è come se durante il terzo giro di pista, fossi riuscito a modificare dei passi presi – male? – poco dopo la partenza. È scorretto nei confronti degli altri. Sarebbe innaturale e innecessario riavvolgere il tempo e modificare il passato – Sì, ma il labor limae? -, ma l’ho ritenuto un obbligo per il mio presente – ma alla fine sei arrivato primo? -. Ma non allarghiamo il campo delle metafore, quella sportiva rende l’idea dell’assurdità della mia volontà di agire sul passato – ma la gara è a migliorare il proprio ego? -. Potremmo anche nuotare: l’apnea disegna molto bene la trance che mi porta la scrittura. Nuoto veloce e a stile libero, ma ogni volta che alzo lo sguardo tra una bracciata e l’altra per prendere fiato e controllare il mondo, è come se qualcosa di vivo in me mi abbandonasse per rompere il tempo e tornare in quel momento della gara in cui avevo poco fiato; con un bacio narcisisticamente pregante, porta in dono ossigeno dal presente e in quel presente in cui mi sveglio sono più avanti – non dire scemenze, la scrittura non ti porta ad essere migliore, più avanti degli altri! Il mondo è cambiato, non siamo più nell’ottocento! Non esiste felicità sociale per uno scrittore. Conosci ora i poeti e gli scrittori? Come stanno?
Non so come stanno e di scrittori poeti famosi ora non ne conosco di persona, li ho solo studiati. E fidati che loro ti lasciano capire solo quello che vogliono e si nascondono dietro il loro dito, facendo finta di non essere lì dietro. Tu, tu lo sai. Tu mi conosci. Conosci la mia storia, sei sempre stata con me, poesia. Però non ti lascio libera, anzi forse ti chiudo ancora più in giù. Preferisco stare da solo per un po’. Sai che sono sempre allegro, ma quando ti lascio sedere vicino a me, mi ricopro di un velo nero. Mi abbracci e sto bene, mi sento davvero un passo davanti a tutti, ma non voglio saltare davanti a tutti. Voglio stare con tutti. Voglio abbracciare i miei amici, ridere e scherzare con loro. Cercare un nuovo amore che non sia un idillio, una scalata verso la luna. Voglio smetterla di avere pretese da romantico tedesco. Voglio chiuderti in un ripostiglio, anzi infondo alla cesta dei panni sporchi: tu, il mio diario e l’astuccio! andate lì in fondo e non muovetevi!
Vedo che ti stiri i capelli con la mano, con fare nevrotico. Tu non vuoi. Hai soltanto paura di essere respinto. Fatti accettare, togliti dalla testa che tu possa vivere senza di me! Sì, lo ammetto, ti tolgo dal conformismo, ma dimmi cosa c’è di male! L’arte non deve omologare, l’arte ti deve cambiare! NON nel voler essere volutamente diverso, ma nello stare in pace con se stessi. Estirpa ogni pregiudizio: se diventi uno scrittore, non è detto che sarai triste come tutti continuano a pensare per il povero Leopardi. Non esistono poeti gioiosi o cupi, esistono solo storie che hanno la loro necessità di essere raccontate. Se tu vivi nella tua dimensione sociale e sei allegro, vuol dire che rimani a galla, nella superficie sociale. Non scendi mai giù, nel tuo intimo, a controllare che sia tutto a posto. Questo dobbiamo farlo insieme, quando rimaniamo da soli. Il velo che tu vedi nero, non ha colore; è che ci troviamo sempre di notte. Pensa a ciò che ti dico e torna in te.
In me, sì, torno in me. Ma c’è ancora qualcosa che mi infastidisce, cammino in un labirinto con questa guida cieca. Dedicarsi alla poesia porta ad auto eleggersi un passo avanti, ma in realtà dovremmo restare un passo indietro a tutti per sfruttare questo sentimento di discesa negli inferi, per aiutare gli altri.
D’annunzio e San Francesco, ma questo matrimonio, non s’ha da fare!
Gentile pubblico, ci scusiamo per il disagio. Non era il libro che vi aspettavate. Ho rimproverato già l’autore, ci sarà una breve pubblicità, poi l’autore provvederà a scrivere qualcosa di allegro.
Ho bisogno di bere
dalla tua essenza per sopravvivere:
la mia anima è arida senza di te.
Ti prego troviamo il modo per stare
abbracciati e lontani
attaccati e sognanti
per poi qui ritrovarci davvero noi,
un tutt’uno noi, fuori
da chi ci invidia, noi,
noi, noi, noi, soltanto noi!
E se è il pensiero che conta
grazie a te, sono una calcolatrice.
Bisogna sempre osare.
Ma con discrezione. Cioè, no, oddio.
Io faccio così. Allora cosa fai?
Consigli agli altri? Come?
Oggettivamente, dove credi di
andare, tu, che non sai
nemmeno perché le cose non vanno
mai come si pensa vadano? Appunto.
Se pensando di osare si pensa di
sbagliare, basta escludere il nostro
timore dal futuro.
Quindi osare con discrezione serve
a valutare il futuro a nostro
piacimento. Ergo io non
credo di voler cambiare metodo.
Oppure dovrei osare?
Mettersi in discussione
è la tua chiave di volta. Rivolta.
Forse diventerò stupido; non che
ora l’intelligenza strabordi da
me, né, di certo, tengo quel bagaglio
di vita necessario al non esserlo.
Però un giorno lo diventerò, sì.
Non per altro, è che ho il vizio
di prendere i miei capelli e mentre
penso, li tiro, li arruffo e li annodo,
insomma, li uso come acqua del mio
mulino, quello delle belle idee.
Senza di loro, non riesco; non io.
Quindi quando cadranno, ahimè, lo sarò.
Sarò stupido perché non in grado
di pensare, ergo sarò beato.
QUALCOSA DI ALLEGRO
Le donne che mi amano di solito mi regalano fogli bianchi. Ed io sono contento come se in un cliché mi avessero portato la luna. Ed io prendo questo blocco di fogli e tra una boccata di cattivo umore e l’altra tiro un sospiro di sollievo pensando a loro. E come se mi dicessero: ehi, guarda! Sono qui! Ballo per te! Dipingimi! Come la pittura, così la poesia. Ed io vago con la mente, le immobilizzo con gli occhi e perdo in un blocco atemporale dove tutto si muove al mio tempo. A volte le perdo di vista, divago sul senso della poesia, mi ripeto versi di altri che forse nella mia testa cambio. Ed è un attimo – che è fuori d’orologio – in cui tutto è contemplabile. Ma ormai non so più se ha senso ragionare su dilemmi della vita. Dante non aveva il modo di telefonare a Beatrice. Ora c’è la possibilità di avere tutto e subito!
Ma ho detto che sarebbe stato qualcosa di allegro. Maledette spie! Tornate nell’inconscio collettivo! Sei ai livelli della pubblicità, un’interruzione al quotidiano senso del benessere! Sei un qualcosa per cui vale la pena cambiare canale.
Torniamo alle donne, quelle sì che sono allegre! Adesso sto occupando il mio tempo appresso ad Anna. Ma non c’è Aria. Passa molto tempo con me e ne parliamo di noi! Però ella indugia – non se la sente. Eppure, la vedo attratta perché indugia e dice di no, ma il corpo chiama, io le vedo le alchimie, le affinità elettive, lo sento il volto che si copre quando mi abbraccia, ti nascondi, sì sei più bassa, ma non per questo devo baciare i tuoi capelli e si vede che lo fai perché indugi e te ne rimani sicura in una zona dove le mie labbra non possono arrivare. Ma questa esagerazione del no mi fa pensare che fra poco si trasformerà in un sì esasperato, carico di un empio orgasmo che non volevi che per te stessa e mi lasci fare una trasgressione al tuo tempio d’amore.
Ma basta, ho detto che avrei parlato di qualcosa di allegro non di qualcosa di porno.
Però, perché menti? Non ha più senso fondare una storia in un contesto storico diverso per censurare i propri sentimenti. Quelli sono, ve lo dico con la stessa confiden – resti del passato si trascinavano ancora qua e là. Sulle rive del vicino rivo erano accampati un Unno o due; poco distante un Gallo, forse Edueno, immergevano audacemente nella fresca corrente. Si disegnavano all’orizzonte le sagome sfatte di qualche romano, gran Saraceno, vecchio Franco, ignoto Vandalo. I normanni bevevano calvadòs. Il duca d’Auge sospirò pur senza interrompere l’attento esame di quei fenomeni consunti. Gli Unni cucinavano bistecche alla tartara i Gaulois fumavano gitanes, i Romani disegnavano Greche, i Franchi suonavano lire, i Saracineschi chiudevano persiane. I normanni bevevano calvadòs.
I FIORI BLU – QUEUNEAU
-za che avrei col mio migliore amico! Aspetta c’è un errore di copiatura. Non vedi che c’è un pezzo in più?! Ma come no, che c’entrano i resti del passato con una frase, con – una parola addirittura tronca- lasciata a metà!
Dai retta a me che faccio filologia. Filoche? Compongo tessuti oltre la noia. Eppure, sul manoscritto!
Ma basta, ho detto che avrei scritto qualcosa di allegro, non qualcosa di inutile!
Dunque, cosa definiamo allegro.
Per me è qualcosa di ritmato, di dinamico, che mi lasci capire tutte le contraddizioni di questa vita, ma ballandoci insieme. Per me qualcosa di allegro è diverso dall’essere un’affermazione, piuttosto è come un’eterna domanda, un lasciarsi trascinare insieme alla folla, ma costruendo qualcosa di tuo, arrivando a pensare che la propria voce sia indelebile.
È difficilissimo trovare qualcosa di allegro che non sia uno sporco sarcasmo od una barzelletta sui letterati tristi: è che non trovo niente di divertente, non nella mia vita, ma nella missione letteraria che spero di poter seguire.
Forse è un problema di metro, di misura. Cerco, leggendo, qualcosa che mi interessi, che mi aiuti a crescere, a non sentirmi mai veramente arrivato. Sarà per questo che preferisco chi mette in gioco i suoi problemi con storie reali che siano scritte con il pensiero e il cuore, non solo con il talento.
Vi vorrei parlare di un mio interesse anormale: mi piace cercare i video in rete di concerti di musica classica. Fin qui sembra quasi normale. Però ho sviluppato un crescente feticismo per i direttori d’orchestra. Infatti, ho iniziato a cercare anche direttori d’orchestra donna, perché ero stufo di fissare Abbado. Però per me quelle sono seriamente bacchette magiche. Li vedo: tutti le seguono e loro, i direttori, sono completamente posseduti dalla musica. Ho passato un’ora e nove minuti a guardare Muti dirigere la nona di Beethoven. Composizione che non ho mai veramente amato finché Kubrick mi ha mandato in fissa. Magari era anche per me un periodo alla Clock work Orange. Avrei voluto ribellarmi forse da sempre. Forse un giorno inizierò a parlare di scopate e non di seghe.
Ma basta, ho detto che avrei scritto qualcosa di allegro, non qualcosa di personale.
La verità è che qui non posso scrivere niente di allegro. Ho bisogno di essere preso sul serio, non riesco nemmeno ad essere sarcastico. È come se la letteratura mi portasse in un vortice di schizofrenia narcisistica e creasse in me un alter ego, che non riconoscerei nemmeno se mi comparisse allo specchio. È che ho intenzioni alte. Quando dico di fare letteratura, faccio un passo molto più grande della mia gamba. Ma che sento che ho qualcosa da dire a tutti. Non posso stare in silenzio, ho bisogno di parlare e discutere di me stesso; ma non per me, per tutti. Sento un costante bisogno di mettermi in gioco, di essere da esempio, di fare il portabandiera per smascherare tutte le contraddizioni della nostra generazioni. Una generazione piena di amnesie, di dipendenze e inerzia. A volte mi sorprendo di come già anni fa avevo intuito con pensieri superficiali invece problemi del senso comune che adesso ritrovo in statue critiche che sto studiando. Mi sento un superbo, però lo devo ammettere senza vergogna. Quando alle superiori studiammo Svevo e la sua inettitudine, capii subito, in un’epifania, che il male del nostro secolo non era l’inettitudine, ma l’inerzia. Vedo come ci comportiamo tutti, vedo che non c’è stasi. Si va tutti, in un moto rettilineo uniforme, guidati al niente, alla costruzione di una felicità piatta, superficiale, piena di beni e non di bene. Ci si lascia trasportare da sogni che crediamo personali, ma non sono altro che troppo comuni.
Il self made man. Che puttanata. Il sogno americano ha copiato un faber fortunae suae pure male. Perché non dobbiamo tutti cercare la felicità alla caccia del soldo, avendo una botte piena e la moglie ubriaca. La ricerca della felicità sta nello scoprire noi stessi, non nel sotterrarlo nel noi tutti.
Il vero motivo per cui non scrivo qualcosa di allegro è che ho bisogno di essere preso più sul serio. Non c’è né da ridere né da piangere. C’è solo da interrogarsi per non finire sul telegiornale perché la testa ci esplode dal represso e tiriamo coltellate al consorte.
C’è da stare allegri, solo facendo grossi passi verso l’autocoscienza.
TRADUCENDO FORTINI
Vorrei essere il primo poeta sullo
spazio. Galleggiando senza gravità
mi escluderei da tutto, incaricato
da non so quale anormale società
di scrivere un gran libro di poesia
che valga la sorte dell’umanità.
Sconsolato galleggio tra le stelle
e guardo il piccolo mondo da lassù.
Mi hanno messo in alto perché sanno
che il mondo non ha perso i valori,
ma perché ha bisogno di qualcosa di più,
di un capro espiatorio da abbattere.
L’uomo semplice non distingue il suo
nome da quello dei nemici e dove
si punta il dito va. Lo sa la storia.
Ma io ormai sono un alto astronauta
e il mondo è in un altro punto di vista.
Scendo a combattere tutti e nessuno.
CONGEDO
Facile cerchi il futuro in solitari
caffè: quando lo bevi, ma non trovi
i fondi giusti; allora lo crei tu,
inclinando la tazzina in diagonale.
Ne rimane una mezzaluna, nera,
ma tu sai che essa non ha altro colore.
Ma tu te la dipingi in volto, una smorfia,
una sfida, una carica mai scialba
contro l’inerzia mia e di chi non ama
la scia invisibile e omologata.