In concomitanza con l’uscita del nuovo album del “Professore” (L’Infinito) analizziamo la raccolta del 2011 Io non appartengo più, testamento letterario in cui si fondono molti dei temi che hanno reso unica la discografia dell’autore.
Non possono mancare i richiami letterari, classici e moderni; non mancano le dichiarazioni d’amore per i propri figli, allargate questa volta (sembra giusto, visto l’età che incombe) anche ai nipoti; non manca il rapporto conflittuale con il dolore, traccia amara di una buona parte della sua produzione; non manca neanche la lotta contro le ingiustizie, contro i soprusi di questo misero mondo; non mancano nemmeno le parole di conforto nei confronti dell’ascoltatore, presenti in molti degli ultimi album dell’autore, atte a sublimare la musica in un legame umano tra chi è dietro e davanti il diffusore acustico.
Si legge però molta amarezza in quest’ultima opera di Vecchioni, carattere atipico per la sua produzione. Il cantautore appare lucidamente rassegnato e disgustato su quelle che sono le dinamiche del mondo, su quello che è divenuto l’uomo, mutato nel corso dell’ultimo secolo: sempre più coinvolto in un progresso alienante e disumanizzante. L’autore, da sempre combattivo e pronto a lottare (non a caso nella copertina lo si vede seduto al centro di un ring), è però distante anni luce dai versi di Sogna ragazzo sogna o dal brano vincitore del Festival di Sanremo Chiamami ancora amore. Il Professore sembra davvero aver perso la fiducia nella sua grande (e forse unica) certezza, quella che è il tratto distintivo della sua intera opera: la fede nell’umanità.
La raccolta inizia con un brano intitolato Esodo, in cui si narra la storia di Edipo che – come narra il mito – abbandona la figlia Antigone alle porte degli inferi e si getta nelle braccia della morte. Edipo, risolutore dell’enigma della Sfinge, si accecò per uno scherzo giocatogli dal fato (quando procreò quattro figli con quella che, a sua insaputa, era la sua madre naturale) preferendo a quel punto la morte a quella che poteva divenire un’esistenza senza alcuna speranza. E nella canzone, prima di darsi alla morte, spiega quelle che sono le proprie impressioni: “Io non appartengo più a queste miserie mobili […] / alle scaramucce sull’esistenza di Dio, sul governo ideale, / sull’origine del male […]”. Edipo si è convinto che il proprio destino è quello di discendere negli inferi e abbandonare ciò che aveva di più caro al mondo, i propri affetti e i propri ricordi (che sono in fondo l’essenza della vita, come canta l’autore ne Le rose blu), andando incontro – da eroe – all’infausta sorte. La canzone si conclude con i versi originali dell’ “Edipo a Colono” di Sofocle: “Tí méllomen choreîn” (trad. Cosa aspettiamo a partire?).
La vicinanza del mito con la biografia dell’autore è sconvolgente: come Edipo anche Vecchioni si mostra sconfitto, dall’amore (come si legge nei versi della celebre Luci a San Siro o de L’ultimo spettacolo), dal dolore (vissuto con la propria malattia e quella del figlio) e dalla perdita di una fede mai troppo sincera (La stazione di Zima).
L’album dà comunque molto spazio al tema dell’amore, molto caro all’autore e cavallo di battaglia della sua intera opera (sfido chiunque a non vacillare all’ascolto di Luci a San Siro). Come fai? é un tributo al sentimento dell’autore per la propria moglie, così come Sei nel mio cuore, entrambi in stretta connessione con Due madri, canzone dedicata alle nipotine adottate dalla figlia Francesca e dalla sua compagna (che pone una particolare attenzione sul discusso tema delle “adozioni gay”). C’è poi uno dei pezzi più sublimi (a mio parere) della intera opera del cantautore milanese, che spinge l’ascoltatore “tra le braccia” – o meglio “tra le gambe” (l’espressione era stata censurata dall’originale versione di Luci a San Siro) – della poesia: la traccia di cui si parla è intitolata Wislawa Szymborska ed è dedicata all’omonima poetessa polacca vincitrice del premio Nobel per la letteratura nel 1996 (e deceduta nel 2012, un anno prima dell’uscita dell’album). Vi è anche spazio per un inno alla femminilità, intitolato Le mie donne, in cui si passano in rassegna le più importanti figure femminili che maggiormente hanno contato per l’autore (da Rosa Luxemburg a Simon de Bouvier e le proprie figlie).
Il tema della morte e dell’abbandono ritornano poi nelle tracce centrali della raccolta: ne Il miracolo segreto, ispirato all’omonimo racconto di Jorge Luis Borges dalla raccolta Finzioni, si parla di un condannato a morte che chiede a Dio un anno di tempo per poter concludere la propria opera letteraria. “Dammi questo miracolo segreto /non ti chiedo di continuare a vivere e ad amare / non ti chiedo di stringere chi mi sono visto andare / ma solamente il tempo per potere ricordare […]. In Sui ricordi – canzone dalle tinte particolarmente amare – il cantautore attraverso una sorta di lascito testamentario chiede alla propria amata di gettare nel fuoco la sua musica e la sua poesia e di conservare, al contrario, quelli che sono stati gli errori, i dolori e i momenti forte di passione.
Uno dei punti cardine dell’intero album è però rappresentato da Ho conosciuto il dolore. Il pezzo parla del rapporto tra Vecchioni ed il dolore, mostratosi all’autore attraverso “il figlio malato, la ragazza perduta all’orizzonte, il sogno strozzato, / l’indifferenza del mondo alla fame, alla povertà, alla vita / il brigante nell’angolo nascosto vigliacco, battuto tumore / Dio, che non c’era e giurava di esserci, / ah se giurava, di esserci e non c’era”. Il cantautore durante la sua vita, la sua lotta, non si è mai abbattuto ma ha affrontato la sofferenza “a colpi di canzoni e parole” e una volta fermata nell’angolo l’ha costretta ad ascoltarlo: “Hai fatto di tutto per disarmarmi la vita / e non sai, non puoi sapere / che mi passi come un’ombra sottile sfiorente, / appena appena toccante, e non hai vie d’uscita / perché nel cuore appreso, in questo attendere anche in un solo attimo, / l’emozione di amici che partono, figli che nascono, / sogni che corrono nel mio presente, / io sono vivo e tu, mio dolore, / non conti un cazzo di niente”. L’arte come cura al dolore. La canzone come arma e come salvezza, unico bastione per opporsi alla sofferenza e alle ingiustizie del mondo.
La raccolta prosegue con Stelle, brano che mostra come l’autore, passata una vita a navigare nel mare della letteratura (Velazquez), venga tradito da quelle stelle che avevano da sempre mostrato la via, e decide di abbandonarle per continuare la sua navigazione (“Stelle, perdute stelle, miserabili stelle di questo cielo, / è venuto il momento di mandarvi a fare in culo!”). E questo viaggio continua in Così si va, traccia che sembrerebbe unire la melodia de Le rose blu e i temi de La viola d’inverno, in un misto di “malinconia e passione” stupefacenti. Dopo aver scelto di abbandonare il nord della propria bussola e guidato solamente dall’amore (“che è stato tutto e niente sai, / la sola scusa di vivere che hai”) il cantautore decide di proseguire questo personale nuovo cammino.
Si giunge alla conclusione dell’album, che riconduce l’ascoltatore ai temi iniziali. Dopo aver attraversato le gioie e (soprattutto) i dolori del percorso del cantautore, si arriva al brano eponimo dell’album: Io non appartengo più. Sulla melodia nostalgica di un pianoforte, accompagnato da un arco, inizia un canto sommesso: “Io non appartengo più alle cose del mio tempo, / non mi riconosco più, lì nascosto dietro un canto.” La società odierna è irriconoscibile agli occhi dell’autore, ricolma di “borghesi”, “inciuciai”, “banche” e “cazzinculo”. Non può neanche lontanamente ambire a diventare questa un società giusta e meritevole. Non vi sono più quei grandi uomini che creavano modelli di vita, canoni da prendere come metro sul quale plasmare ognuno la propria esistenza. Non vi sono più Vincent Van Gogh, gli Arthur Rimbaud, gli Olaf, i Don Chisciotte né tantomeno i Cyrano de Bergerac di un tempo. L’unica possibilità dell’autore è quella di sforzarsi a ricordare: il tempo a cui appartiene, quello “scritto sopra le [sue] dita” è ormai perduto, appartiene al passato, è irraggiungibile se non dalla memoria. Gli ideali di un tempo, La bellezza, le speranze sono oramai andati perduti e raggiungerli sarebbe un tentativo vano. L’ultima strofa del testo è lapidaria e chiude con amarezza e lucidità un album profondo e ricco di sfumature:
“Io non appartengo a un tempo che non mi ha insegnato niente / tranne che puoi esser uomo ma non diventare gente. / Io volevo ed erano voli di uno sparso, antico sogno, / per non rimanere soli, accecati nell’abbaglio. / Io non appartengo e lascio uno spiraglio alla mia porta, / solo quando vieni fallo con l’amore di una volta.”
Rimane uno spiraglio, una piccola apertura che sembra voler dare adito ad una speranza, una possibilità di salvezza persino di fronte ad un paesaggio di totale disperazione. La speranza, come mostra Vecchioni nel corso dell’album (e della sua intera carriera), è animata solamente dall’amore, dalla passione per l’arte e per la letteratura, da quel mondo immaginario che si anima grazie al calore umano, all’empatia e alla fiducia negli altri. La mossa che può permettere quel colpo di reni per tornare a combattere anche quando tutto sembra perduto. Fra le trame della discografia del cantautore si legge di una continua lotta, di “non [lasciarla] vinta neanche un momento”, di rimanere “sempre contro, finché [si ha] la voce”, a discapito della felicità, della tranquillità e dell’appagamento. Una lotta feroce ed amara che spesso conduce implacabilmente alla sconfitta.
Ma forse, quando si lotta per l’amore, solo per l’amore, non si può che uscirne vincitori.